EDITORIALE
Il Morbo

Arso da febbri maligne, tra le coltri umide di umori malati, mordevo il bordo di una veglia pulsante e dolorosa, per lacerare il tenue velo che mi separava dall’incoscienza.
Non fu sonno quello che mi prese, né seppi mai se i miei sensi andarono perduti oppure se ne acquistai di altri, più acuti. All’alba il cielo si tinse dei colori che orlano una ferita, e una luce mai vista lacerò le ombre della stanza, vibrando di un’ansia urgente e inquieta.
Messo il mantello scesi in strada, oppresso da una pena senza nome.
Rari viandanti incrociavano il mio passo. I loro volti febbricitanti e consapevoli, l’andatura svelta, quasi fuggitiva, mi parlavano di una sorte infausta e comune. Li seguii con lo sguardo, ma ben presto non riuscii più a distinguerli. Sembrava che insieme all’eco dei passi svanisse la loro stessa presenza. Spinto da un impulso immotivato, alzai lo sguardo verso i Monti delle Nebbie.

Spirali di caligine filamentosa disegnavano curve mobili nell’aria, con l’ordine leggiadro e implacabile di un esercito che si prepara alla battaglia. Passai la mano sulle pietre del Palatium, davanti al quale ero nel frattempo sopraggiunto. Mi rimase sul palmo un polvere vischiosa e purulenta, le scaglie morte di un animale antico che si andava disfacendo. Sembrava che un morbo senza nome addentasse con le sue fauci caliginose ogni possibile conformazione della materia, fosse essa animata o inanimata. Un pianto sommesso e senza lacrime mi fu, per un istante, richiamo e distrazione.

Seduta per terra, una giovane Lady si guardava le mani, incapace di qualsiasi altra azione, mentre le sue vesti assumevano un lucore ignoto, prima di scomparire in un rapido vortice insieme a chi le indossava. Cercai di avvicinarmi per aiutarla, ma le mie mani si chiusero su uno sbuffo di vapore traslucido. Poi la pece prese il sopravvento. Mi sveglia con il petto in subbuglio, i palmi sudati, il giaciglio scomposto.

Percorso da tremiti squassanti e divorato da uno strano presentimento, mi recai allora in Biblioteca, benché la notte avvolgesse ancora con il proprio oscuro manto il Granducato. Mentre le dita tremanti scorrevano tra Tomi antichi, forse la luce vacillante delle candele, forse la distorta percezione dello stato febbrile mi fece pensare che anche i ponderosi volumi vivessero di un’esistenza precaria, e non fossero altro che mutevoli ma evanescenti grumi di luce.

I miei timori più profondi ebbero mesta conferma quando al posto del prezioso Libro dei Ricordi trovai un arabesco di polvere grigia. Affranto, compresi in quell’istante che la piaga imperversante nell’incubo, la peste capace di distruggere pietre e carne,era un Male che annienta generazione ed eserciti, cancella territori, ingoia umili e potenti.

Una lebbra silenziosa ed invadente, dall’ingannevole nome di farfalla, o di fiore. Lo pronunciai prima che anche il suo ricordo abbandonasse la mia mente infuocata, e come un sibilo o una serpe dalle mie uscirono sette lettere: amnesia.

DONEZ - Consigliere dell'Arcana Saggezza