Miti e Leggende
Il Nipote del Conte Thorm

Anno III - Mese 2° - Giorno 11°
La battaglia e le manovre militari contro le forze del Male avevano da lunghi
giorni occupato la quotidianità delle truppe e dei Cittadini di Lot.
All’infuori delle mura, degli edifici e del Tempio di Themis poco era rimasto
in piedi: le strutture in legno bruciate, buone solamente per alimentare il
fuoco destinato ad incenerire i cadaveri dei nemici; le strade ridotte ad un
ammasso di laterizi precipitati dai tetti delle case, grazie alla forza di venti
scatenati dalle forze del Male con lo scopo di annebbiare la vista dei Soldati
prestatisi alla difesa della città; le botteghe svuotate d’ogni bene e genere
alimentare, che ognuno s’era accaparrato prima e durante la battaglia,
impaurito da una carestia, avvertita come imminente, data la devastazione dei
campi adiacenti Lot.
Polvere e cenere, ma ancora tanta voglia di ricominciare.
A dispetto di tutto ciò, il Palazzo di Corte si ergeva ancora alto e fiero,
pareva, in tutto quel paesaggio di distruzione, come se la mano di Themis si
fosse posata su di esso, preservandolo da ogni cataclisma; sembrava che la sua
edificazione fosse avvenuta durante una sola notte, la notte dopo il cessare
delle incursioni nemiche. I Nobili attraversavano gli ampi corridoi con passo
svelto e deciso, attenti ad ogni strano rumore ed indaffarati, per cercare di
riportare nella città un giusto equilibrio. Dopo un periodo di lotte cruente,
com’era stata anche quella da poco trascorsa, il tessuto sociale di una città
ha bisogno di essere tramato nuovamente e le cariche ridistribuite.
Si raccoglie ciò che è rimasto e si riparte quasi da zero.
Le stanze del Conte Thorm erano allora nell’ala destra dell’edificio. Dalle
finestre egli aveva la possibilità di osservare una consistente porzione delle
mura della nuova Lot e controllare gran parte del movimento della città, anche
se tutte queste faccende erano date in mansione alle alte cariche di Lot, mentre
il Conte stesso, uscendo dalle riunioni giornaliere con il Granduca, si occupava
di firmare atti liberatori o condanne alla prigionia, pene di morte o
promozioni. Le pergamene, che redigevano i vari atti, venivano poi chiuse e
sigillate con la firma dell’anello del Conte che, lasciando la sua impronta
sulla ceralacca, dava al documento la massima ufficialità e l’inappellabilità
eterna.
Il cielo su Lot s’era fatto plumbeo e la nebbia, che al mattino un leggero
venticello esitante aveva tentato di dissolvere, stava nuovamente avvolgendo
tutto con l’approssimarsi del tramonto ed il conseguente calo della
temperatura; pareva nascesse dal terreno, formando un velo bianco, per poi
crescere a vista d’occhio ed alzarsi fin sopra ai cespugli, poi agli alberi
ed, infine, sopra a tutta la città.
Thorm la osservava ed, in quel gioco lattiginoso d’impalpabili bianchi fili,
riviveva i momenti salienti della lotta contro Honorius e gli alleati del Male;
il grigio si trasformava in rosso scuro, le sagome dei rami d’ogni albero
erano spade e scimitarre; le foglie che cadevano erano i soldati uccisi dalle
frecce nere ed ogni corvo che s’alzava, per tornare nel proprio nido a
trascorrere la notte, l’anima che, uscita dal corpo ormai esanime d’ogni
uomo, libera saliva verso l’infinito.
Il Conte, rapito da quelle immagini irreali, non si era accorto che l’avevano
lasciato solo. Ognuno dei Nobili, preferendo rientrare nelle proprie stanze
prima che le tenebre prendessero il sopravvento, si era congedato da lui
salutandolo; ma egli non aveva udito nulla e quel gesto di commiato, fatto con
la mano sinistra, che accompagnava ora l’uscita del Conte Erik, ora quella del
Conte Petrus e della Somma Sacerdotessa Urania, era stato elargito senza una
reale presa di coscienza.
Intanto il portone che dava accesso alla città venne serrato e le sentinelle
presero posizione sopra i bastioni.
Alabarde e macchine da guerra furono posizionate e pronte a lanciare.
Revisionate in quelle poche ore di tranquillità, avevano ripreso il loro
aspetto di sempre: lucide nei punti metallici ed ingrassate negli snodi e negli
ingranaggi di movimento. A gruppi di dieci, i Soldati si recavano nella cucina
di truppa, per riempire le gavette e mangiare un po’ di calda minestra, prima
che, a turno, potessero riposare qualche ora.
Gli Ufficiali, seduti nel circolo nella Caserma, fumavano grossi sigari e
tabacco da pipa, bevendo sorsate di scuotiventre e parlando della guerra. Grandi
mappe venivano distese sui tavolini, pensavano ad eventuali strategie per non
subire attacchi così devastanti come quelli subiti nei giorni recenti.
L’oscurità calava e la civetta era nuovamente salita, come ogni notte, sul
trono del suo regno.
Un rumore lontano di cavalli fece scuotere la sentinella; avvertito l’Ufficiale
di guardia ognuno aveva preso posizione. Una carrozza trainata da sei cavalli
dal manto scuro giunse correndo davanti al portone della città.
Nessuno che la conduceva, anzi un uomo c’era a cassetta, ma trafitto da una
freccia in pieno petto; essa l’aveva trapassato e, conficcandosi nel legno
alle sue spalle, lo aveva come inchiodato, tenendolo in naturale posizione di
cocchiere. La testa ciondolava ad ogni scossa della carrozza.
I Soldati, usciti dalla piccola porticina che si apriva all’interno di un’anta
del grande portone, corsero ad afferrare le briglie e, con non poca fatica,
riuscirono a domare l’irruenza dei cavalli.
Dagli sportelli della nera carrozza non si riusciva a vedere nulla, anche a
causa delle tendine interne di grosso lino ricamato. Grande fu la meraviglia nel
notare, disegnato su ogni sportello, il giglio del Granducato unito ad un altro
simbolo, a tutti sconosciuto, in oro a sfondo rosso. Questo però non infuse nei
Soldati la tranquillità necessaria per aprire con sicurezza la carrozza e
vedere chi, o cosa, ci fosse all’interno. Pian piano la maniglia venne girata
e l’Ufficiale scostò il drappo.
A sedere non vi era nessuno, né a destra e né a sinistra, ma, abbassando lo
sguardo, vide il corpo di un ragazzino che, raggomitolato in un angolo, s’era
addormentato, avvolto nei suoi nobili panni.
L’Ufficiale salì nella carrozza e dovette sorreggersi per non cadere, dato
che i cavalli, sentendosi scuotere da dietro, s’erano imbizzarriti di nuovo,
ancora impauriti da tutto ciò che erano riusciti a stento a fuggire.
L’uomo si chinò e scosse il giovine. Quest’ultimo sbarrò gli occhi e,
terrorizzato, si ritrasse ancor di più nell’angolo che i sedili facevano con
l’anta della carrozza. L’Ufficiale, con parole e con il tono di voce più
pacati possibile, lo tranquillizzò e lo invitò a scendere. Il ragazzo si fece
coraggio e, guardandosi intorno con circospezione, scese barcollando. I Soldati
lo osservarono e, malgrado le vesti un po’ sporche, compresero subito della
sua appartenenza all’alta nobiltà.
Il portone fu spalancato e la carrozza fatta entrare. L’Ufficiale pose qualche
domanda al ragazzo, ma egli lo guardava senza dire o fare nulla, eccezion fatta
per qualche cenno con gli occhi, ma di poco conto e di nessuna intuizione. Il
graduato decise di portarlo a Corte, ma, mentre stava per accompagnarlo via,
improvvisamente il giovane si divincolò e corse nuovamente all’interno della
carrozza. Tutti restarono inermi a guardare la scena ed il ragazzo riscese con
una pergamena in mano, che aveva tenuto nascosta all’interno di uno dei
sedili, insieme ad altre sue cose. L’Ufficiale fece il gesto di sfilargliela
dalla mano, ma il ragazzo, prevedendo tale pensiero, lesto se la mise dentro la
giacca di velluto, abilmente ricamata, che copriva una camicia di fine seta
bianca con colletto di pizzo.
Il Conte Thorm, nel mentre che avvenivano queste vicende, aveva consumato la sua
frugale cena; non era mai stato di grande appetito e si accontentava di poche
cose, ma non per questo meno buone.
Giunti a Corte l’Ufficiale si fece presentare al Conte dai servitori del
nobile Thorm, conducendo con sé il ragazzo.
Thorm lo osservava e, mentre il graduato gli spiegava come il giovine era giunto
a Lot, considerava che l’abbigliamento del fanciullo, sicuramente d’aristocratica
provenienza, gli era in qualche modo familiare.
Gli pose qualche domanda, ma non ottenne risposta.
Il tempo passava e Thorm cominciava un po’ a spazientirsi, già provato dai
giorni precedenti, segnati dalla guerra. La sua voce si fece tonante e fu allora
che il ragazzo tirò fuori la pergamena e gliela consegnò.
Thorm osservò il sigillo: mille ricordi gli invasero la mente e spazzarono via
tutte le brutte immagini lasciate dalla battaglia contro Honorius. Era il
sigillo della sorella Alleire, nata dalle seconde nozze che suo padre ebbe, dopo
che la madre del Conte morì di peste. Poco sapeva ormai della sua famiglia, ma
i ricordi ... quelli tornavano prepotentemente alla sua memoria.
Ruppe il sigillo e lesse la pergamena:
<<Caro Thorm, non so se ancora Vi ricorderete di me, ma io non potrò mai
dimenticarVi: siete sempre rimasto vivo nel mio cuore. Tanti anni sono passati
da quel giorno che prendemmo strade diverse: Voi partiste arruolandoVi nell’Esercito
ed io rimasi vicino a nostro padre. Ricordo come fosse ora quando, poco più che
un ragazzo, lasciaste le mura della città, fiero sul Vostro bianco cavallo e
nella Vostra scintillante armatura galoppaste incontro al Vostro destino.
Poco dopo che Voi partiste, io sposai uno dei Luogotenenti di Corte, ma subito
dopo la nascita di mio figlio, purtroppo egli fu ucciso, durante un’incursione
di pirati.
Nostro padre è morto l’anno scorso e, da allora, abbiamo avuto innumerevoli
incursioni che hanno portato la mia ... la nostra città alla rovina. Nessuno è
stato capace di prendere in mano la situazione e tutti si sono accaparrati ciò
che era possibile e sono fuggiti: un branco di vigliacchi! Se nostro padre fosse
stato ancora vivo li avrebbe uccisi uno per uno, laggiù sul Ponte del
Traditore, per poi appenderli in piazza a monito per gli altri.
Ormai però tutto ciò è solo un sogno ed è per questo che Vi chiedo un ultimo
aiuto. Dico così perché vedo la mia fine prossima; sono ammalata e presto la
Dea Themis mi vorrà con lei.
Colui che avete davanti a Voi è mio figlio Roland; ha quattordici anni, è un
ragazzo in gamba, ma soffre di mutismo.
Vi prego! Prendete Voi in mano la sua vita e portatelo in alto, portatelo con
Voi, tenetevelo accanto ed insegnategli ciò che io non posso più.
Sono stanca fratello mio, sono stanca di vivere, ma morirò felice se saprò che
il mio bambino è con Voi.
Nella carrozza troverete una gabbia con dentro una colomba, legate il laccio
delle scarpe di Roland ad una sua zampetta e lei, che sa la strada, tornerà da
me, così io comprenderò che la missione è stata compiuta.
Vi voglio bene Thorm, Vi voglio bene fratello mio. Tua Alleire>>.
Gli occhi del Conte presero ad annebbiarsi ed, accasciandosi sulla sedia, fu
colto dal pianto. Mai nessuno lo aveva visto piangere, ma sapere così della
morte del padre e dell’imminente morte della sua unica sorella, lo aveva
davvero distrutto. Ora non aveva più legami al mondo se non quel ragazzo
quattordicenne che stava davanti a lui e dal quale poco avrebbe saputo a causa
della malattia di cui era sofferente.
Ordinò che qualcuno andasse a prendere la colomba all’interno della carrozza.
Quando l’ebbe fra le mani, Thorm sciolse un laccio dalle scarpe del ragazzo e
lo legò alla zampetta del volatile.
Poi aprì la finestra del salone e nella notte buia la fece volare.
Aveva richiuso i vetri e si era già voltato quando una civetta si posò sul
davanzale e, allargando le ali, fece un gran baccano. Thorm si voltò di scatto
e la civetta lo guardò con i suoi occhi gialli sbarrati nell’oscurità, poi
volò via.
Il Conte diede ordini che il ragazzo fosse portato nelle stanze per gli ospiti,
in attesa di organizzargli qualcosa di più familiare.
Poi, stanco di quella giornata senza fine, andò a riposare.
Il mattino seguente l’alba non bastò a far intravedere l’azzurro del cielo
e la nebbia ancora copriva ogni cosa.
Thorm si alzò di buonora e, salito sul suo cavallo, uscì per una cavalcata,
seguito dalla sua Guardia personale.
Non fu molto lontano dalle mura quando, rallentando la corsa del suo animale,
vide in terra, fra il fango, la colomba che aveva lasciata libera la sera
precedente e che a quell’ora doveva già essere tornata dalla sorella di lui.
La riconobbe per il laccio di scarpa legato alla zampetta; non avrebbe mai
potuto riconoscerla dal suo becco, dato che qualcuno le aveva tagliato la testa
…
Pensò alla sorella che sicuramente era in pena non avendo avuto notizie del
figlio, ma non c’era nulla che potesse fare, non era quello il momento
opportuno per lasciare Lot.
Tornò in città e, giunto a Corte, salì di corsa le scale che portavano alla
stanza del nipote.
Aprì pian piano la porta e si sedette sul letto per guardarlo.
Stava dormendo e Thorm lo osservava mentre in quello stesso istante, lontano da
quelle forti mura e dalla grande sua capacità di governare, l’amata sorella
Alleire saliva in cielo.
Il Conte Thorm aveva ben chiaro in mente che il ragazzo non sarebbe potuto
restare a Lot. La città era sotto assedio, il pericolo era sempre in agguato.
La notizia della sua presenza sarebbe sicuramente giunta alle orecchie di
Honorius e dei suoi servi e si sarebbe immediatamente scatenata una caccia a cui
egli difficilmente sarebbe sopravvissuto.
Prima che la notizia si diffondesse il Conte Thorm chiamò il Governatore
Normanno e gli diede ordine di portare immediatamente, e di persona, Roland in
un monastero vicino a Telthartown ed affidarlo alle cure dei monaci che vi
risiedevano.
Il tutto doveva restare
assolutamente segreto.
I mesi trascorsero uno dietro l’altro e, così come ognuno di noi nasce e poi
muore, anche i giorni si susseguivano a ritmo continuo. Lot era continuamente
assalita ed in parte distrutta, ma la costanza di voler proseguire e vincere
tutti su tutto, faceva sì che il popolo sconfiggesse gli invasori e
ricominciasse a vivere. Il nipote del Conte Thorm, una volta presa confidenza
con il nuovo luogo e con i monaci che vi risedevano, fu dato in consegna ad un
Precettore che tenesse conto della sua malattia e lo istruisse. Non che egli
fosse ignorante, anzi da ciò che il maestro poteva osservare ogni giorno il
ragazzo dava dimostrazione di grande maturità ed intelligenza.
Ciò che doveva dire lo scriveva, fino a quando il Precettore non cominciò a
comprendere il linguaggio dei gesti e le sue espressioni, allora tutto divenne
più semplice. Il Conte Thorm seguiva l’istruzione del nipote e lui stesso,
quando poteva raggiungerlo senza pericolo, s’impegnava ad insegnargli l’arte
della guerra ed a tirare di scherma. Forse non sarebbe potuto diventare un
Generale dell’Esercito, ma aveva grandi possibilità di poter un domani, alla
morte del Conte, divenire erede al trono del Granducato.
Un giorno avvenne che Thorm dovette allontanarsi per affari di stato urgenti; c’era
da stabilire nuovi confini e nuove terre da conquistare, prossime all’allora
Ducato di Lot.
Il comando della città, sotto le attente direttive del Granduca, restò in mano
ai Governatori, i quali non avevano certo nulla da imparare e sapevano
altrettanto ben gestire il governo di Lot.
Una cosa però venne a mancare: l’attenzione vigile, ma discreta, sul ragazzo
in quanto nessuno era a conoscenza della sua esistenza.
I primi giorni, durante l’assenza di Thorm, tutto proseguì normalmente:
galoppata del mattino, lezioni di musica ed altre materie letterarie, pomeriggio
matematica e fisica applicata, sera trascorsa a giocare a scacchi con i Nobili
della corona.
Poi qualcosa scattò nella mente del giovane ed un mattino egli si allontanò
dal monastero, dirigendosi verso i Monti delle Nebbie.
Era ancora presto e le tenebre non avevano dato posto alla luce. Rotoli di nubi
girovagavano nel cielo, coprendo il luccichio delle poche stelle rimaste. La
luna faceva capolino da quei cumuli d’aria informe, illuminando un po’
quegli istanti prima dell’alba.
Il ragazzo camminava lesto e deciso, pareva sapesse dove andare anche se quei
luoghi per lui erano ignoti; nessuno ce lo aveva mai portato, dato che erano
terre pericolose anche per il più abile Soldato.
Non si era nemmeno procurato un cavallo, per non destare sospetti nello
stalliere del monastero che dormiva nelle scuderie. Il solo suo compagno era il
suo fedele lupo, che lo seguiva ovunque fin da quando il Conte Thorm glielo
aveva regalato. Giunto ai margini della radura antistante le pendici dei Monti
delle Nebbie si arrestò, indeciso su dove andare. Il lupo uggiolava, forse
impaurito dalla nebbia che non permetteva la visibilità, o forse timoroso per
il pericolo imminente.
Ad un tratto un Orco saltò giù da una pietra enorme; era immenso, gli occhi
più grandi delle mani, una corazza che faceva spavento e digrignava dei denti
che parevano sciabole. Il ragazzo fece per fuggire, come se si fosse destato da
un sonno profondo; il cane si scaraventò contro l’Orco che lo prese per la
testa e lo buttò da un lato, stordendolo e rendendolo così inerme. Afferrò il
giovane per la gola e lo trascinò via. Poco distante, l’entrata di un
cunicolo dava accesso ad una caverna.
Il ragazzo fu gettato nel mezzo di un’ampia sala sotterranea e tutt’intorno
quei bestioni fecero circolo ridendo di lui e sbavandogli addosso. Poi d’un
tratto una voce impose il silenzio. Veniva dall’alto, dal basso, da destra e
da sinistra ... veniva da ogni dove.
Roland tremava come una foglia, ma in lui e nella sua mente giocavano le parole
dello zio Thorm, che sempre ad ogni incontro cercava d’inculcare nel nipote il
coraggio del Soldato e la forza dell’impavido guerriero. Tutto ciò lo fece
reagire, permettendogli di restare fermo in piedi.
<<Ho fatto catturare la tua volontà dal Mago Skrondo, perché tu fossi
condotto qui al mio cospetto>>.
Un Orco mise un piede sulla testa del ragazzo, per farlo inginocchiare.
<<Ora se vorrai tornare a Lot dovrai promettermi obbedienza e giurare di
aiutare la mia nobile causa>>, queste due ultime parole furono dette dalla
voce con l’eco di una risata, seguita da quella di tutti gli Orchi della
caverna.
Il ragazzo comprese che poco c’era da fare, se non giurare il falso, pregando
prima la Dea Themis di perdonarlo per tale peccato.
<<Giura!>> gridò la voce dalle ombre.
Il giovane alzò la mano in segno di giuramento.
Gli Orchi cominciarono a battergli le mani sulle spalle, non rendendosi conto
della differenza di mole fra loro e lui; egli cadde in terra più e più volte.
<<Basta!>> impose nuovamente la voce <<Non siamo qui per
scherzare. Lot deve cadere, Thorm deve morire!>>.
<<Cadere! Morire! Cadere! Morire!>> urlarono a gran voce gli Orchi;
il giovane cercava di chiudersi le orecchie con entrambe le mani, ma le voci
erano assordanti.
Da dietro ad un Orco sbucò un Goblin, piccolo e verde, che teneva in mano un’ampolla.
<<Prendi quell’ampolla>> tuonò Honorius <<essa contiene un
raro veleno mortale, che dovrai versare nel cibo di tuo zio la prima volta che
egli verrà da te! Una settimana dopo egli morirà come un topo con l’intestino
atrofizzato e senza più alcuna speranza di tornare in vita e così Lot sarà
finalmente mia!>>.
Una lunga risata spaventosa seguì l’ultima esclamazione. Poi proseguì:
<<Ricordati che hai giurato d’innanzi a me e se non rispetterai il
giuramento io stesso tornerò a prenderti e morirai così come è morto il conte
Erik>>. Il Goblin afferrò l’accetta che teneva nella cintura e, preso
un grosso ratto che passava lì d’innanzi, gli staccò la testa di netto.
Il ragazzo ebbe un sussulto mentre la testa del ratto gli rotolava in mezzo alle
gambe.
La voce smise di tuonare e, come per incanto, il giovane si ritrovò solo nella
caverna; nessun Orco, nessun Goblin solo il ratto decapitato e, nella mano, l’ampolla
con il micidiale veleno.
Il lupo nel frattempo, seguendo le sue tracce, lo aveva raggiunto e ringhiava
sull’entrata del cunicolo. Roland prese a correre verso di lui e fuori dalla
caverna.
Uscito all’aria aperta gli sembrò di rinascere. Si era fatto giorno.
Correndo a più non posso, con dietro il suo fedele compagno, riprese la strada
per il monastero.
Quando giunse fuori le mura nascose l’ampolla dentro la giacca e, con una
scusa, riuscì a giustificare con il Priore la sua assenza.
Passarono i giorni ed il Conte tornò a visitare il monastero.
Thorm volle subito rivedere il nipote che tanto gli era mancato. Si diresse
nelle sue stanza e lo trovò che stava in un angolo della sua camera, insieme al
suo lupo, e guardava fuori.
Le lacrime solcavano le sue guance.
Quando Thorm si fece avanti e lo chiamò il ragazzo gli si fece incontro ed
abbracciandolo chiese perdono, con l’aiuto del Precettore che traduceva i suoi
gesti, del male che aveva fatto giurando per salvare la propria vita, giurando a
favore delle forze del Male.
Thorm ascoltò il racconto nei minimi dettagli e rincuorò il ragazzo facendogli
comprendere che lui aveva agito per difesa personale e che non aveva avuto altra
possibilità. L’ampolla fu presa il consegna dal Conte. La vita del Conte fu
così salva grazie alla bontà del nipote che non ebbe paura di andare contro la
volontà delle forze del Male, ma oggi sappiamo ciò che purtroppo gli è
accaduto e che la vendetta di Honorius non si è fatta certo attendere.
PadreBrown, Curatore della
Storia

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