Un cupo fronte di nubi s’accavallava oltre l’oscure cime dei Monti a Nord, simili a schiere di neri destrieri lanciati al galoppo all’avanguardia d’una lugubre Armata, quando gli ultimi raggi del sole lambirono pallidi le possenti Mura del Presidio e le Dodici Torri argentee, che rilucevano della sfolgorante magnificenza dei Signori di Telthartown. Le Torri del Presidio, ultimo baluardo prima delle selvagge Terre del Nord, parevano la punta d’una lama levata a monito incontro a chiunque avesse osato insidiare il potere degli Umani dell’Ovest.
I primi tuoni, fremiti indistinti del lontano tumulto, giunsero all’udito d’un Uomo affacciato ad una delle finestre della Torre estrema, dominante la Città e la piana circostante con la sua alta ombra. Il suo sguardo pareva mirar lungi da quei luoghi, perdendosi oltre i Confini delle Terre conosciute, uno sguardo in cui gli anni si smarrivano, occhi abili nel soggiogar la mente d’un nemico come nell’aspergersi di tenera commozione, legati solamente dalle catene del suo volere. Il lento ed inesorabile incedere delle stagioni cominciava comunque a lasciar i suoi segni sull’alta fronte, segnata di traverso da una profonda cicatrice, memoria d’una battaglia che aveva lasciato la sua impronta anche nell’animo d’uno dei più grandi guerrieri che l’Occidente avesse mai veduto.
Il colore del cielo lento cangiava in tonalità indistinte, offuscate dall’approssimarsi delle tenebre, ma l’Umano non pareva accorgersene. La sua mente era distante dalla Città, intenta a scavar le nebbie che iniziavano ad attanagliare i suoi pensieri, cinti da una cupa preoccupazione.
Eppure, sino ad allora, mai s’era ritrovato a temer nulla e nessuno, conscio della sua forza e della sua astuzia, sconosciute a quasi tutti gli Umani che la Morte non aveva ancora chiamato al suo cospetto, virtù che l’avevano condotto a conquistare la nobil cotta di Guardia del Principe della città di Quinalth, Sire Celthigar.
Da tempi immemori, i Reggenti della Corte di Quinalth, Cittadella fondata dagli Umani dell’Ovest lungo le sponde meridionali del Fiume Azzurro, erano soliti affidar all’Erede del Principe la difesa d’una Guardia, scelta fra i più valorosi giovin vassalli del feudo, ch’avrebbe condotto il figlio maschio sino alla maggior età e la femmina sino al matrimonio; ed egli avrebbe vegliato sul cammino del giovane Erede secondo un giuramento sancito sino alla morte.
In quei giorni, nuovi legami stavano maturando far i due grandi feudi ed il giovane Principe Celthigar era a capo d’una ambasceria giunta nella Città di Telthartown con gl’intenti di porre la firma a nome del Sovrano su di un trattato di non belligeranza fra le Città, primo passo verso accordi di pace e fratellanza sconosciuti dai giorni in cui gli Umani dell’Ovest decisero di separarsi in Regni distinti.
La fratellanza che andava a ricostituirsi dopo secoli di terrore e diffidenza fra Umani di una stessa stirpe sferrava, però, un duro colpo a quelle che erano le ambizioni di molti il cui obiettivo era quello d’erigere un Impero fondato sul terrore e sulla sottomissione ad un unico Sovrano, detentore solitario delle redini del potere.

La Guardia non aveva dimenticato l’alba di molti anni addietro, l’aria immobile del mattino in cui l’accampamento delle truppe d’avanguardia dell’Esercito di Quinalth, incaricate dell’esplorazione dei confini occidentali dei Monti, s’erano destate ad un improvviso fremito della terra, ad un rombo sempre crescente cui era seguito, come il lampo segue il fragore del tuono, l’assalto d’una miriade di Goblin, le bocche distorte schiuse in un ghigno che mai egli aveva veduto sino ad allora, una ferocia che, per buona sorte degli Uomini, non era accompagnata da un attacco organizzato secondo i rigorosi schemi di battaglia, un colpo che altrimenti si sarebbe inferto mortalmente sui Cavalieri sorpresi e per un istante incapaci di reagire.
Un sonno tormentato cingeva le membra della Guardia, che riposava al riparo d’una alta quercia, che spandeva nell’aria del mattino il suo pungente aroma di muschi e licheni impregnati di brina. Allorché le prima urla degli assalitori s’abbatterono sul campo degl’Uomini, egli si svegliò all’improvviso, il torpore che attanagliava le membra subitanea scomparsa al sentore del pericolo, la destra che fulminea era corsa all’elsa della sua vecchia daga, il freddo metallo che in un lampo già solcava l’aria, assetato di sangue nemico. Dopo un istante di straniamento, che risultò fatale alle sentinelle di guardia al campo, alle urla confuse dei goblin si aggiunsero gli ordini e gli incitamenti del Comandante delle truppe, che ora difendeva a spada tratta i suoi Cavalieri.
Lo scontro fu terribile. La memoria della Guardia si perdeva nel tumulto che era subito seguito all’attacco, nel rumore del metallo contro il metallo, nelle grida di rabbia e di dolore, in immagini indistinte di Cavalieri e di Goblin che cadevano morti nella radura.
Il sudore, misto al sangue dei nemici, imperlava il suo volto quando, in cima alla collina che dominava il teatro della battaglia, un solo cavaliere, celato da un drappo vermiglio che ne nascondeva il volto, osservava in silenzio l’evolversi dello scontro. La Guardia s’era arrestata, nel mirare quella creatura, molto più alta e snella dei normali Goblin, la cui immobilità appariva sotto un’aura inquieta e stranamente foriera di terrore. Il Comandante, che aveva seguito il suo sguardo, comprese il carisma che quell’essere possedeva ed il suo ascendente sulle creature che li avevano assaliti, e, con uno scatto repentino, iniziò a correre lungo il fianco dell’altura, un’ombra che si muoveva come in un sogno, decisa a porre fine al combattimento in proprio favore.
Avvedutosi del gesto del suo Capitano, la giovane Guardia di Quinalth cominciò a farsi strada fra le fila nemiche che andavano sempre più assottigliandosi, afferrando all’istante ciò che poteva significare un’azione sì disperata, per la vittoria.
Il suo animo ardeva del desiderio d’accorrere al fianco del suo Capitano per quello scontro avvolto nell’oscure tenebre dell’incertezza, la convinzione che qualcosa di terribile sarebbe avvenuto di lì a pochi istanti che tuttavia si scontrava con le difficoltà sempre maggiori che il suo corpo, stremato dai colpi ricevuti, provava nell’arrancare al seguito della sua ferma volontà.
Giunto al limitare della collina, s’arrestò stremato dalla fatica e dal dolore, lo sguardo offuscato che cercava disperatamente di discernere quanto più in alto stava avvenendo.
Ad un tratto li scorse. Figure indistinte, ascose fra l’ombre dei ceppi sul ciglio dell’altura, il Comandante, coperto solamente d’una tunica grigia lacera e macchiata di sangue che iniziava a rapprendersi, indietreggiava cercando di tenere testa al suo avversario, una visione che destava ammirazione e timore, le movenze che si fondevano incontro al fosco chiarore del sole dell’aurora in una fiamma indistinta. Il valore che distingueva l’Umano iniziava chiaramente a dissolversi nello sfinimento che cominciava a rallentare i suoi riflessi e la figura ammantata di vermiglio era sul punto d’avere la meglio, quando s’avvide d’un secondo Umano che saliva rapidamente il fianco della collina, armato d’una sola daga, lo stemma della Casa regnante di Quinalth che appariva sulle sue vesti.
La Guardia era giunta a pochi passi dal luogo ove si stava consumando lo scontro quando scorse con orrore il suo Capitano, inginocchiato al fianco d’una roccia, la mancina stretta alla gamba dove scura si ingrandiva una macchia di sangue, ed il suo avversario che con un fendente intriso di gelida soddisfazione attingeva con un ghigno invisibile alla vittoria.
Il tempo si fermò per un istante, il volto tranquillo del Capitano di Quinalth che si levò per un’ultima volta nell’osservar quello del Cavaliere che l’aveva sconfitto, prima di reclinarsi su una spalla, mentr’egli cadeva inerte ai piedi della roccia che ora iniziava ad illuminarsi del sole del mattino.
Come un fiume in piena s’abbatte su deboli argini in legno, la rabbia iniziò a dirompere nell’animo della Guardia, mescolandosi al dolore, infondendo nel suo corpo esausto la forza di lanciarsi, la daga stretta convulsamente nella destra, sulla figura che s’era portata la vita del valoroso Umano.
Sopraffatto dallo stupore ch’era sopraggiunto alla vista d’un nemico ch’appariva ferito e spossato, il Cavaliere indietreggiò bruscamente, nel tentativo di difendersi dalla furia improvvisa che s’era scagliata contro di lui, mentre la sicurezza dei suoi movimenti vacillava, e si trovò addossato alla roccia ai cui piedi era caduto il Capitano di Quinalth. Con uno colpo sgualembro in cui infuse ogn’energia che gl’era ancora rimasta, la Guardia colpì con violenza inaudita il braccio destro del Cavaliere una spanna al di sotto della spalla, ed avvertì lo stridulo rumore del metallo infranto, mentre un gemito venne dal suo avversario che cadde su di un fianco, stringendo convulsamente il braccio gravemente ferito.
La figura stramazzata per terra del nemico fu l’ultima visione della Guardia, prima che un dolore improvviso alla fronte lo fece sprofondare nel buio abisso dell’incoscienza.
Quando si destò, avvolto fra le coperte d’un giaciglio in una tenda da campo, le fitte lancinanti che s’insinuavano fra le bende che gli avvolgevano il capo, seppe del trionfo dei Cavalieri contro l’orda dei Goblin, che, ad un tratto, inspiegabilmente s’erano voltati verso una delle colline che sovrastavano la valle costiera dove si trovava il campo degli Uomini ed erano fuggiti recando con loro un cavallo su cui era china una figura ammantata di vermiglio. Allora gli tornò alla mente l’ultimo scontro contro quel Cavaliere, ed insieme si ridestò il dolore per la perdita del Capitano. Uscito dalla tenda, scorse molte figure di Cavalieri intenti a medicare i numerosi feriti ed un manipolo di guerrieri, in vesti ufficiali, di fronte ad un tumulo innalzato sul ciglio d’una collina, accanto ad una roccia avvolta nella calda luce del tramonto.

L’immagine del Cavaliere, sconfitto in duello tanti anni addietro, era rimasta indistinta nella sua mente come la cicatrice che gli attraversava la fronte, reliquia del colpo subito da un nemico che egli non avrebbe mai conosciuto.
La paura che egli aveva provato in quel momento che ora gli sembrava appartenere ad un’altra epoca erano però vagamente simili al timore ed all’incertezza che ora gl’incupivano i pensieri e le risposte che vagamente cercava di trovare al dubbio che l’assillava rapidamente si dissolvevano lasciando luogo ad una nuova, profonda preoccupazione.
Erano trascorsi sette giorni da quando era partito dalla sua casa, immersa fra le vaste distese d’erba al limitare della Pianura dell’Acqua, sul versante occidentale del bacino del fiume Azzurro, e rammentava l’immagine stremata e radiosa al tempo stesso della sua sposa, i suoi lunghi capelli castani sparsi intorno al viso, il suo sguardo segnato dalle fatiche del parto. E mai avrebbe scordato sino alla fine dei suoi giorni il vagito che aveva rotto il silenzio dei colli su cui spiravano i freddi Venti del Nord, il corpo fragile e delicato di suo figlio che veniva al mondo, i suoi occhi castani come gemme infisse nel viso incorniciato dai capelli color dell’oro, il calore d’una lacrima che gli attraversava le guance nel mirar il volto del loro primogenito.
Raccolta velocemente la sua sacca da viaggio, aveva sfiorato con un bacio la fronte di sua moglie Niven e di suo figlio Antioco, restando immobile per un istante ad osservar il suo Erede, prima di uscire di casa per raggiungere le milizie del Principe Celthigar, accampate poco distante sulla via per Telthartown. Prima di partire, aveva affidato la protezione della sua famiglia a tre Sacerdoti delle Lune gemelle Luri, Neft e Uri che aveva scelto come Precettori di suo figlio per gli anni a venire e si era raccomandato di inviargli una missiva ogni cinque giorni per il tempo che sarebbe stato lontano da casa, per tenerlo informato delle condizioni di salute di suo figlio e di sua moglie, che era rimasta molto provata dal parto.
Con queste rassicurazioni era partito per il campo del suo Principe, dirigendosi indi alla volta della Città di Telthartown.


II

Le prime gocce di pioggia cominciavano ora a martellare, incessanti come il triste rintocco d’una campana funebre, le pietre coperte d’un velo di muschio delle mura della Torre, recando con loro una folata del gelido vento che scendeva dai Monti delle Nebbie, avvisaglie del temporale imminente ormai a scagliarsi contro la Città al tramonto.
“Devo partire, immediatamente”. Questo pensiero s’affacciò alla mente della Guardia come l’unica possibilità che gli restava, conscio del fatto che nulla di normale poteva aver spinto i Sacerdoti a non inviargli una sola notizia dal giorno in cui era partito da casa; e, mentre scendeva a passi rapidi le scale della Torre del Presidio, diretto verso le stalle reali, il suo pensiero era fisso sull’immagine di sua moglie e di suo figlio che lo osservavano allontanarsi, un triste presagio che non abbandonava il suo animo in tumulto.
Legata saldamente al ventre del suo destriero una bisaccia di viveri e d’acqua che gli sarebbero serviti lungo il viaggio, infilata la daga in un fodero nascosto nella sella, montò a cavallo senza proferire parole con i sorveglianti che lo osservavano con palese meraviglia e partì come un lampo, avvolto in uno scuro mantello che lo difendeva dalla pioggia battente.

Il tonfo sordo del legno dell’uscio riportò l’Umano alla vita dal dolce tepore del sonno in cui giaceva, le prime luci dell’aurora che iniziavano ad incunearsi fra le fessure del casolare a poca distanza dalla casa della Guardia di Quinalth, un rumore ritmico e snervante, che lo costrinse ad alzarsi di malavoglia dal letto ed a muoversi, il passo malfermo, verso la porta d’ingresso, mentre si legava con movimenti resi fluidi e precisi dall’abitudine il cordone che cingeva la sua veste scura con rifiniture dorate di Sacerdote della Luna Uri. Lo sguardo incrociò per un momento la figura del suo fratello ancora addormentato nella stanza attigua, destando una stilla di invidia subito svanita ad una nuova serie di colpi ai battenti della porta.
Cinque giorni erano trascorsi da quando la Guardia Reale di Quinalth, partita insieme al Principe verso le Terre del Nord, aveva affidato loro la protezione della sua famiglia e, tuttavia, non aveva mai preso in seria considerazione l’eventualità di rispolverare la sua abilità bellica, non riuscendo a pensare ad un nemico con le intenzioni di attaccare una tranquilla villa di campagna; ma l’ordine di vegliare sulla famiglia della sua Guardia era giunta direttamente dal Sovrano ed a loro non era dispiaciuto poter trascorrere alcuni giorni lontano da Quinalth.
«Abbiate la compiacenza d’attendere, chiunque voi siate», rispose seccamente il Sacerdote alla fastidiosa insistenza dello sconosciuto che non accennava a smettere di bussare.
Schiuso per metà l’uscio del casolare, il Sacerdote si ritrovò di fronte la figura alta d’un Umano di mezza età, coperto solamente d’un mantello logoro in molti punti, lo sguardo vagamente visibile nell’oscurità del primo mattino, la corporatura alta e snella, un portamento austero che mal si conciliava con l’apparente aspetto di mendicante delle sue vesti, una profonda cicatrice chiaramente visibile sul braccio destro scoperto, poco al di sotto della spalla.
Un ghigno carico di soddisfazione attraversò per un istante il volto dello sconosciuto, o almeno così parve al Sacerdote, che troppo tardi s’accorse del baluginio d’una lama che apparve come per incanto dalle trame del mantello.
L’immagine d’un Umano coperto di sangue, avvinghiato disperatamente ad una colonna del Tempio delle Tre Lune a Quinalth, s’insinuò ad un tratto nel sonno del Sacerdote di guardia nella casa della Guardia, svegliandolo di soprassalto, fredde gocce di sudore che iniziavano ad imperlargli la fronte. “Un incubo, null’altro che un cattivo sogno”, fu il suo primo pensiero, che, tuttavia, non lo convinceva del tutto, ed indi si decise a lasciare il suo giaciglio, i primi raggi del sole che iniziavano a filtrare dalle tende che oscuravano l’angusta stanza al piano terreno.
Un urlo soffocato, o almeno così gli parve di udire, giunse dall’esterno dell’abitazione, mozzandogli il respiro in petto, mentre la mano correva freneticamente al suo pugnale riposto su di un baule vicino al letto. Scostate d’un palmo le imposte, socchiuse gli occhi abbagliati dalla luce del sole che sorgeva al di là delle colline ad Est del Fiume Azzurro, e scorse un’alta figura avanzare a passi veloci lungo il crinale che separava la magione della Guardia dal casolare dove s’erano sistemati i suoi due fratelli.
In un attimo comprese; il volto dell’Umano agonizzante gli si dischiuse in una improvvisa rivelazione, lo sguardo del Sacerdote di Uri implorante che gli volgeva un ultimo avvertimento prima di morire. Senza indugiare ancora, corse su per le scale che portavano alla camera di dama Niven e, spalancato l’uscio, la trovò ancora addormentata con al fianco suo figlio Antioco, una scena di placida tenerezza di fronte al tragedia che si stava consumando.
«Mia Signora, non v’è un istante da perdere….», disse, mentre sprangava l’uscio, alla donna che s’era appena destata. Raccolta una sacca di tela, vi infilò alla rinfusa alcuni abiti e spalancò la finestra, che si apriva sul retro della casa, da cui una stretta scala in pietra scendeva nel prato dove si trovavano le stalle della magione. Senza avere il tempo di porre alcuna domanda, la giovane si ritrovò ad essere trascinata per una mano dall’Umano, stordita e confusa dal brusco risveglio e da quanto stava avvenendo, il figlio ancora assopito fra le braccia.
Erano giunti in un fiato alla base della scala ed il vento, levatosi fra gli alberi che circondavano la magione con un cupo sospiro, strappò un brivido a dama Niven, che si voltò impaurita verso il suo Protettore: «Quale la ragione di questa fuga? Dove ci dirigiamo?»
Il Sacerdote, che intanto avanzava a rapidi passi verso le stalle poco distanti, guardò il volto pallido della giovane donna e rispose con voce affannata: «Le peggiori previsioni che mi furono confidate il giorno in cui ebbi l’incarico di proteggervi si stanno avverando, mia Signora…. I nemici del Re ci hanno scoperti, impreparati ed indifesi, ed io devo portarvi via da questi luoghi prima….». La frase morì in un rantolo di dolore, nell’istante in cui un dardo scuro si conficcava sotto le vesti del Sacerdote, poco più in alto del torace, lasciando l’Uomo fermo là dove si trovava, prima che le ginocchia cedessero sotto il peso del corpo senza vita.
Un gemito di terrore venne dal petto di Lady Niven, mentre osservava la figura accasciarsi lentamente, gli occhi che cangiavano in una sfumatura vitrea, il pallore della morte che si disegnava sui lineamenti corrugati del volto. Istintivamente, si voltò verso la finestra dalla quale s’erano allontanati e, illuminato dai freddi raggi del sole nascente, scorse un Uomo solamente, alto e vestito d’un lacero manto, che ancora imbracciava un arco, e che ora, senz’ombra di dubbio, fisso aveva il gelido sguardo su di lei. Senza indugiare per solo momento, nella vana speranza di sfuggire ad un pericolo che ora le appariva reale, la giovane si lanciò con uno scatto disperato verso le imposte aperte della stalla, infilandosi nell’ombra satura dell’acre odore del fieno umido e richiudendo rapidamente la porta alle sue spalle. Restò immobile per un istante, il fiato che disegnava pallide nuvole nell’oscurità ed il cuore che le pareva volesse sfuggirgli dal petto. Vagamente udì il flebile nitrito di due cavalli poco distanti, mentre la vista iniziava a distinguere nel buio l’ambiente che la circondava.
Nonostante la mente s’affannasse nel cercare una via d’uscita, un ultimo approdo di salvezza, con orrore presto s’accorse che non le restava molto da vivere, che lo sconosciuto assalitore era lì per lei…. e per suo figlio. Scostando le coperte in cui era avvolto, scorse le candide sfumature del volto, il corpicino addormentato fra le sue braccia, apparentemente distante da tutto quel che avveniva attorno a lui. Sentendo che ogni attimo poteva essere l’ultimo, depose il fagotto di lana in cui il piccolo Antioco era ascoso fra due cumuli di paglia in una mangiatoia d’un alveo vuoto, in un ultimo tentativo di offrire a suo figlio una flebile speranza di salvezza, e si fermò di fronte al portone, restando, con calma apparente, in attesa di quel che di lì a poco sarebbe seguito.

Il cavallo stramazzò a poche decine di metri dalla staccionata che delimitava i prati in cui era cresciuto, sbalzando il suo cavaliere sull’erba fradicia di pioggia e restando immobile sul suo fianco. Aveva cavalcato a velocità sempre crescente per tutta la notte, seguendo le nuvole che avanzavano verso Sud e trovandosi ben presto nell’infuriare del temporale che ora stava per abbattersi sulla Città di Quinalth.
Facendo leva sulle energie rimaste, la Guardia s’alzò dal fango ed iniziò a correre verso la sagoma della casa dove aveva lasciato otto giorni prima la sua famiglia, distinguendo a malapena le solide mura di travi e pietra nell’oscurità dell’alba occultata dalla pioggia battente. Un cupo silenzio regnava nei dintorni della magione, carico d’un terrore sconosciuto, che avvolgeva e opprimeva l’animo come un manto ch’offusca la luce del sole. Pregando in cuor suo la Dea di fargli ricever risposta, bussò con decisione ai solidi battenti della porta d’ingresso e si fermò ad attendere un suono od una voce che non sarebbero mai giunti. Non udendo nulla giungere dall’interno, iniziò a correre disperato intorno alla casa, senza curarsi della pioggia che ora incessante gli sferzava il volto, offuscandogli la vista. Giunto nel prato alle spalle della magione, scorse la porta della stalla spalancata ed il buio in cui era avvolto il suo interno.
Era avanzato di qualche passo incontro al basso edificio, quando avvertì con violenza inaudita un dolore improvviso alla spalla, che lo scaraventò in avanti d’un paio di metri, tramortendolo. Stava per perdere i sensi, quando gli tornò alla mente il ricordo di sua moglie e di suo figlio, e trovò la forza di sollevarsi su di un braccio, mentre un cupo fiotto di sangue s’univa alla pioggia in una macchia scura sull’erba. Una voce che egli non aveva mai udito prima d’allora si levò al suo fianco, gelida e tagliente, mal celando un odio enorme, insinuandosi nel suo animo e raggelandolo: «I vostri giorni su queste Terre volgono al termine, Messer Hadrian…. Oggi s’è compiuto quel che sarebbe dovuto avvenire tanti anni addietro, e la vostra Dea non è riuscita ad evitarvi la morte una volta ancora. Ho atteso troppo a lungo quest'istante ed ora ho portato a termine il mio dovere….»
Attraverso la pioggia ed il dolore che iniziavano ad annebbiargli la vista, la Guardia scorse il braccio che impugnava una lunga spada sporca di sangue, attraversato al di sotto della spalla da una profonda cicatrice di cui egli era stato l’artefice e comprese che la fine era arrivata.
Con un movimento fulmineo, la spada si piantò nel ventre della Guardia di Quinalth, e un velo d’oscurità iniziò a posarsi sui suoi pensieri, il vento freddo del Nord che si abbatteva intorno al corpo su cui la Morte stava per posarsi.
Rinfoderata l’arma, il Cavaliere sfregò con forza un acciarino che aveva sfilato da una piccola sacca di cuoio ed iniziò ad appiccare fuoco al cumulo di paglia che aveva accatastato accanto alla parete in legno della casa, conscio che il suo compito era giunto al termine, macchiato, però, da una pecca che avrebbe sempre continuato a tormentarlo. Indi, s’avvolse intorno al corpo un mantello vermiglio e scomparve nell’oscurità, allontanandosi per sempre da quei luoghi.
Nell’istante in cui la vita stava per lasciare il corpo della Guardia, fra le tenebre che avevano avvolto le sue membra esanimi, una luce, dapprima flebile ed indistinta ed a mano a mano sempre più accecante, iniziò ad insinuarsi nella sua mente, levando un soffio di calore nell'animo. Come in un sogno, una visione d’improvviso apparve agli occhi dell’Umano, un’immagine angelica e foriera di timore al tempo stesso, simile ad una donna avvolta in vesti raggianti del sole del mattino, sospesa su di una tempesta di fuoco che la avvolgeva e pareva inondare il suo corpo esile e delicato. Ad un tratto, una voce giunse, o così gli parve, da quella visione, una voce limpida e soave che destò un tremito nel profondo del suo animo e che egli comprese pur senza averla udita, poche parole che rapirono i suoi pensieri e lo allontanarono dal dolore e dalla sofferenza: «Il tuo cuore è puro, Servitore dell’Esistenza, e sarai accolto al fianco della tua sposa e dimorerai insieme alle anime degli Umani Valorosi che ti hanno preceduto; ma non desidero che il tuo sangue su questa Terra si estingua e che coloro che ti hanno portato alla morte restino impuniti. Tuo figlio, in cui ancora alberga un alito di vita, sarà l’Erede della tua vendetta e del tuo Valore, del tutto simile al padre se non per la stirpe cui apparterrà. Io lo renderò simili ad i miei figli prediletti; d’ora sino alla fine non sarà più Umano, ma Elfo.»
Con il conforto di queste parole, la vita lasciò il corpo della Guardia e, nel medesimo istante, un raggio di luce s’aprì una via fra le nubi che oscuravano il cielo e scese sulla stalla della magione, illuminando il corpo d’un bambino nascosto vicino un cumulo di paglia, e la sua natura umana mutò per sempre in quella d’un Elfo.


III

L’odore acre e pungente del legno d’olivo che ardeva nell’alto focolare in pietra iniziò a spandersi rapidamente per la camera, una bassa stanza di tronchi di pino costiero arredata in maniera spartana ma intrisa d’un particolare fascino che le davano un numero impressionante di manufatti provenienti da Terre sconosciute ai più, oggetti di ogni genere che tradivano lo spirito esotico di chi aveva trascorso una vita nel collezionarli. Il tempo dei lunghi viaggi lungo le coste del Continente e per le isole dell’Oceano erano, però, quasi giunti al loro tramonto per l’Umano che ora sedeva su un treppiede d’acero, affacciato alla finestra che dava sul brullo paesaggio dei Colli Ventosi di Ponente, una landa disseminata d’alture dove cresceva una rada vegetazione, le ultime propaggini della catena dei Monti delle Nebbie che degradava lentamente verso il Mare a Ovest. Il sole era scomparso da poco oltre l’orizzonte a Oriente, tingendo di un rosso acceso che ora cangiava in tonalità più fosche il cielo disseminato da strascichi di pallide nubi, ed una leggera brezza cominciava a smuovere le cime degli alberi intorno alla piccola costruzione, l’unica traccia di civiltà sino a molte miglia in ogni direzione.
All’improvviso, un’ombra scura apparve sullo sfondo delle alture, avvicinandosi rapidamente in direzione della casa di tronchi, quasi fosse trasportata dal vento di Levante. Il vecchio si sollevò a fatica dal treppiede, scuotendo con aria stanca il capo, e spegnendo il braciere della pipa di radica che sino ad allora aveva tenuta stretta fra i denti. Non s’era allontanato che di pochi passi dalla finestra, quando la porta si spalancò con un flebile cigolio, lasciando che una folata di vento s’insinuasse nella stanza, facendo crepitare le fiamme nel camino. Sulla soglia era ferma la figura, non molto alta, d’un Elfo di corporatura snella e longilinea, il volto dagli zigomi alti e dal colorito debolmente abbronzato, i capelli color dell’oro scendevano quasi sino alle spalle, gettando un’ombra scura sull’alta fronte e sugli occhi d’un castano scuro; non mostrava più di vent’anni, pur avendo da una stagione superati i trentuno ed un chiaro sorriso era aperto sul suo volto, mentre avanzava raggiante in direzione del vecchio.
«Salute a te, padre; non sembri essere felice ch’io sia tornato…». La voce era limpida, ma tradiva un tono che stava cangiando nelle note profonde della maturità.
«Non è strano, se consideri che sei via da una giornata intera ormai…. Eri uscito solamente per portare un po’ di provviste fresche dopo l’Inverno, ma pare tu abbia preferito goderti la giornata di sole per scomparire di casa».
Il giovane posò sul tavolo della camera un lungo arco in legno di castagno e quattro giovani lepri, cacciate quello stesso giorno. Non era estraneo a trovare il padre preoccupato, al ritorno da una battuta di caccia, ma non mancò d’avvertire un cenno di tristezza nella sua voce, che lo aveva lasciato turbato.
«Ti conosco bene, padre; v’è qualcosa che ti preoccupa e ti supplico di dirla ora, prima di continuare a cercare di nasconderla.».
L’Umano era conscio di non poter attendere oltre, che suo figlio non avrebbe desistito sino a quando non avrebbe rivelato ciò che da una vita aveva sempre cercato di dimenticare.
«Seguimi, Zephyr…. E’ tempo che tu comprenda quel che ho sempre cercato di non rivelarti, ma che non può attendere oltre». Distolto lo sguardo dal figlio, s’avvio su per la scala che conduceva nella soffitta della casa, seguito immediatamente dal giovane Zephyr che non sapeva se sentirsi impaurito o affascinato da quel che il padre intendeva rivelargli.
Giunti nella vasta camera posta al di sotto del tetto spiovente della costruzione, il tanfo della polvere li investì all’istante, ed il respiro subito divenne affannoso nell’aria satura di umidità. Una quantità imprecisata, ma sicuramente enorme, di mobili, armi, arnesi di ogni genere riempiva la stanza, lasciando poco spazio in cui muoversi; ma l’Umano si diresse a passi decisi verso un vecchio scrittoio tarlato, che pareva aver dimenticato il tempo in cui affondava le radici nella terra delle colline costiere. Il pianale appariva però ben ripulito, cosa che meravigliò l’Elfo mentre attendeva con curiosità sempre crescente quel che sarebbe avvenuto. Dopo aver scostato alcune carte, il padre prese una pergamena ed una sacca di cuoio dal piano dello scrittoio, avvicinandosi al figlio con lo sguardo basso sulle parole abilmente vergate.
«Sovente mi domandavi la ragione per cui un Elfo, quale tu sei, appartenesse ad una famiglia umana, vedendo chiuso il discorso con risposte fugaci e lapidarie, senza che realmente ti fosse chiara la verità.».
«Voi siete sempre stati come dei genitori per me, quale che fosse la verità, e nulla nei miei dubbi raffigurava un desiderio di partire da questa casa, perché voi siete la mia famiglia, qualsiasi cosa tu debba dirmi». Il tono era imperioso, ma tradiva una forte emozione che a stento il giovane cercava di reprimere.
«Sappi che il mio più grande desiderio è quello di vederti restare vicino a me, ma non posso più impedirti di conoscere la tua vera Natura, le tue vere origini; è la coscienza che mi spinge a far sì che tu vada incontro alla vita che ti appartiene, ed ora è giunto il momento di incamminarsi, figlio mio…». Con un tremito nei gesti, consegnò la pergamena ed il fagotto al giovane Zephyr, restando fermo ad osservarlo con gli occhi che si inumidivano d’una lacrima.
«Colui che ti ha condotto alla soglia della mia casa, una notte di pioggia di trentun’anni or sono, vuole vederti; ha scritto in questa lettera, che ho trovato sull’uscio poche ore dopo il culminare del sole, come raggiungerlo; dovrai anche indossare al collo il medaglione contenuto in questo sacchetto, perché egli possa riconoscerti».
Zephyr sciolse i legami che chiudevano la stoffa e fece scivolare fra le mani un disco metallico non molto pesante, che svelava al di sotto d’un velo d’ossido tenui riflessi argentei; il disegno, impresso chiaramente al centro del medaglione, recava un simbolo solamente, un'H stilizzata, di colore vermiglio e vagamente inquietante. L’Elfo sapeva d’essere di fronte alla porta che dava su di una vita a lui sconosciuta.

Il sole non era ancora sorto dalle colline a Occidente, quando Immanuel McTanar uscì dalla casa che per tanti anni aveva ospitato un figlio donatogli dal destino, come gli piaceva sovente immaginare.
Rammentava ancora chiaramente la notte dell’Equinozio d’Autunno di trentun’anni addietro, quando un alto Cavaliere ch’egli non aveva mai veduto prima d’allora aveva bussato alla sua porta e gli aveva affidato un bambino avvolto fra logore coperte, che egli riconobbe subito come un Elfo, facendosi promettere di proteggerlo sino a quando sarebbe stato pronto a conoscere la verità. Immanuel non aveva avuto obiezioni di sorta ed accettò di buon grado un dono che gli era giunto ad un anno appena dalla morte di sua moglie, durante uno dei suoi lunghi viaggi per mare.
Man mano che cresceva, il giovane Elfo, cui aveva dato il nome di Zephyr, mostrò di amare le lunghe escursioni, in cui trascorrevano molti giorni lontano da casa, iniziò a dedicarsi alla caccia e venne istruito sui manuali che il padre conservava come ricordo di luoghi che aveva visitato in gioventù. All’età di vent’anni, Zephyr conobbe un Umano che era di passaggio lungo la costa e cui gli offrì di restare per del tempo insieme a loro; durante i mesi che il giovane Cavaliere, di nome Cloridano, trascorse nella casa dei McTanar, Zephyr ebbe modo di apprendere l’arte del combattimento che l’Umano si offrì di insegnargli e, quand’egli decise di partire, si promisero di ritrovarsi un giorno a venire.
Ora era giunto per Zephyr il momento di lasciare la casa in cui era sempre vissuto, ed il vecchio Immanuel avvertiva, insieme alla sua tristezza nel veder partire colui ch’era divenuto suo figlio, la paura e l’emozione che assalivano l’animo dell’Elfo, ma sapeva che non avrebbe cercato di distoglierlo dal suo dovere.
Zephyr si trovava già al fianco del suo cavallo, mentre terminava di legare alla sella l’ultima sacca di provviste per il lungo tragitto che lo attendeva, e, nell’udire i passi del padre che si avvicinavano, si incamminò rapido nella sua direzione, un sorriso tirato che gli si scorgeva in volto. Accortosi dell’enorme prova che il padre stava affrontando in quell’istante, l’Elfo gli gettò le braccia al collo, senza dire nulla, e così rimase sino a che Immanuel non gli si discostò e gli disse poche parole: «Ovunque tu ti troverai e qualunque cosa accada d’ora in avanti, non dimenticare che qui troverai sempre una casa ed un padre ad accoglierti. Fa’ buon viaggio e non mancare di portare il mio saluto al buon, vecchio Atroth da parte mia.»
«Questo è un arrivederci, padre, non un addio. Prima che una nuova Primavera s’affacci sulle Terre dell’Ovest, io tornerò a casa, per rivederti».
Detto questo, salì con un agile salto sulla sella e spronò il cavallo, che partì come un lampo verso la valle non ancora illuminata dal sole del mattino.

Erano trascorsi dieci giorni da quando Zephyr McTanar era partito dalla casa sulle sponde orientali dell’Oceano, ed ora l’Inverno aveva lasciato il posto alla Primavera, senza aver, comunque, allentato la sua morsa di freddo dalla valle del Fiume Azzurro, ancora immersa in una tremula nebbia nonostante un pallido sole fosse sorto oramai da qualche ora. L’Elfo osservava pensieroso, in sella al suo cavallo, i carri che attraversavano a radi gruppi il ponte sul fiume, seguendo l’antica via che univa Tauand alla Fortezza di Heor, passando per la Città di Quinalth.
Uscendo dallo stretto tratturo immerso nella fitta vegetazione delle colline, l’Elfo fu investito da una folata di vento freddo e fu costretto a ripararsi il volto con lo scuro manto che gli cingeva le spalle. Spronando il suo destriero, scese a passo sostenuto dal fianco della collina in direzione del ponte sul fiume, dove era scritto che Ser Atroth avrebbe atteso il suo arrivo, la mattina del decimo giorno dopo che la lettera fosse giunta. Dopo un breve tragitto, Zephyr giunse vicino ad un gruppetto d’alberi poco distante dalla strada ed ivi si fermò, senza sapere in realtà come la sua guida l’avrebbe trovato. Non ebbe da attendere molto a lungo.
Ad un tratto, da un punto in ombra a Nord della via, apparve la figura d’un Elfo che gli si avvicinò silenzioso e si fermò a pochi passi da lui, in sella ad un alto cavallo bruno. Pareva fissare intensamente il medaglione che riluceva sul petto del giovane, lo sguardo profondo ed enigmatico a stento visibile sotto la lunga chioma argentea.
«Così sei tu Antioco, il piccolo Elfo che tanti anni addietro affidai al Viandante Immanuel McTanar? Devo ammettere che non ti avrei riconosciuto senza quel medaglione; sei cresciuto in maniera sorprendente per un ragazzo della stirpe elfica…».
«Il mio nome è Zephyr, nobile Elfo, e sono figlio di Immanuel McTanar; ma le tue parole invero mi giungono nuove. Fosti tu ad affidarmi a mio padre? Chi sono i miei reali genitori, dunque?». L’apprensione che si leggeva sul volto del giovane Elfo era quasi pari alla diffidenza che nutriva ancora verso quello sconosciuto, che era giunto dal nulla a raccontargli una strana storia sul suo passato.
«Ogni cosa necessita del suo tempo, e tutto ti sarà svelato nel momento più opportuno. Per ora devi sapere che il tuo nome è Antioco; ma per conoscere la verità che ti è rimasta sempre celata, devi fidarti di me e seguirmi. Puoi chiamarmi Atroth.»
«Va bene, Atroth; farò come dici. Dove ci dirigiamo, ora?»
L’Elfo di nome Atroth parve sorridere alla trepidazione che in un soffio era seguita alle fredde parole del giovane che si trovava di fronte a lui, e, voltando il cavallo verso Nord, lo spinse al galoppo seguendo le rive del Fiume. In un attimo Zephyr gli fu al fianco, ed entrambi si allontanarono verso le colline a Nord della Città di Quinalth.

Quando s’arrestarono ai piedi d’una altura, la luce del sole giungeva loro offuscata da una fitta coltre di nuvole grigie che si rincorrevano in cielo e minacciavano pioggia, mentre il vento s’era fatto più tagliente ed ora sferzava le cime degli alti alberi in cima alla collina con un sibilo spettrale.
I due Elfi, dopo aver legato i cavalli ad un basso arbusto nelle vicinanze di un cumulo indistinto di pietre, che parevano le rovine d’una antica costruzione, avanzarono a fatica, riparandosi il volto dalle folate improvvise, sino a giungere alla sommità del colle, dove un basso tumulo di terra, fiancheggiato da propaggini rocciose su tre lati, offriva un riparo all’impeto del vento. Dei bassi cipressi s’elevavano ai lati delle rocce, e parevano abilmente disposti a circondare il tumulo per proteggerlo da un nemico invisibile.
Zephyr poteva avvertire il battito del suo cuore seguire tumultuoso il corso dei suoi pensieri, mentre si avvicinava a quelle rocce dove sapeva chi avrebbe trovato. Il suo sguardo, cercando di distinguere qualcosa oltre la cortina che il vento parava loro innanzi, cadde su di una lastra abilmente levigata che risaltava fra le pietre velate d’una coltre di muschio alla base del tumulo, una lapide di marmo chiaro dove alcune parole erano abilmente incise, ma iniziavano a confondersi sotto i colpi delle intemperie. Il giovane Elfo si inginocchiò di fronte alla pietra, sfiorandola con una mano, e lesse i due nomi, uno al fianco dell’altro: “Ivi riposano, uniti per l’Eternità in nome di Themis, Sir Hadrian Themisforo Van Alioth, Guardia Reale di Quinalth, e la sua sposa Niven Lyra Roslin”.
Zephyr avvertiva il tepore d’una lacrima che gli solcava le guance, mentre leggeva i nomi dei suoi genitori. Quindi, si voltò verso la sua guida, che s’era arrestata in silenzio a pochi passi da lui, e gli chiese, con un filo di voce: «Tu conoscevi mio padre e mia madre?».
Ser Atroth poteva avvertire l’immensa tristezza che aveva afferrato l’animo del giovane Elfo, e gli rispose: «Solo il nome di tuo padre m’era noto; era uno dei valorosi Cavalieri del Principe Celthigar, l’allora Erede al trono di Quinalth e l’attuale Sovrano. Le vicende che accaddero trentun’anni fa ed il perché tuo padre venne ucciso mi furono note solamente in seguito; dopo ch’io ti trovai nella stalla della casa che ivi sorgeva e che fu la magione di Sir Hadrian e di sua moglie sino alla tua nascita, non tardai a comprendere che non saresti sopravvissuto restando a Quinalth, e ti portai con me sino a casa di Immanuel, un Viandante che sapevo essere un Umano giusto che t’avrebbe protetto sino a quando non saresti stato pronto a conoscere la verità».
«Ma tu sai chi ha ucciso i miei genitori e per qual ragione ha fatto tutto ciò?».
Lo sguardo di Atroth iniziò a fissare un punto imprecisato oltre le spalle del giovane Elfo, mentre la sua mente cercava di ricordare.
«La notte in cui ti trovai ero di passaggio per queste Terre, mentre un forte temporale si abbatteva su Quinalth e sulle colline circostanti. Una luce poco lontano dal punto dove m’ero fermato per riposare attirò la mia attenzione, poiché pareva che un immenso fuoco fosse stato acceso vicino ad un gruppo d’alberi; mi incamminai allora verso il punto che si rivelò essere una costruzione che andava a fuoco. Proprio in quel mentre vidi la figura d’un Cavaliere ammantato di vermiglio che scendeva lungo il fianco della collina, correndo proprio nella mia direzione. Giunto poco distante da me s’accorse della mia presenza e sfoderò la spada, con chiari intenti ostili, ma non riuscì a fare più di pochi passi, poiché una mia freccia gli attraversò la gola.
Allora, mi avvicinai a lui, per cercar di capire cosa lo avesse spinto a correre inevitabilmente incontro alla morte, ma egli era già morto e nulla trovai addosso a lui che potesse svelare la sua identità a parte un medaglione d’argento con una H vermiglia incisa in bassorilievo».
Zephyr prese fra le mani il disco che portava al collo, e se lo strappò per osservarlo da vicino.
«Quindi questo emblema non appartiene alla mia famiglia?».
«No; quello è il simbolo di chi intendeva uccidere tuo padre. Una morte che gli sarebbe servita ad indebolire le difese di Sire Celthigar e destabilizzare l’equilibrio che si stava creando fra i Regni di Telthartown e di Quinalth, che allora erano vicini a stringere un accordo di pace. L’Umano che io uccisi era al servizio d’un Mago fra i più potenti che le Terre dell’Ovest abbiano mai visto e che, con suo figlio, aveva intenzione di prendere il potere sui due Principati…. Il suo nome era Hotalth».
Il nome non giunse nuovo a Zephyr, che l’aveva sentito pronunciare la prima volta dal suo grande amico Cloridano, alcuni anni prima. Rammentava che l’Umano gli aveva parlato di due Maghi oscuri che, dopo un tentativo di uccidere la figlia del Reggente di Quinalth, s’erano rifugiati sui Monti delle Nebbie per sfuggire all’Esercito del Principe di Telthartown. Da allora non aveva più sentito pronunciare quel nome e mai si sarebbe aspettato che le loro storie fossero a tal punto indissolubilmente legate. Le parole di Atroth ruppero il corso dei suoi pensieri.
«Fu il successore di tuo padre ad uccidere Hotalth, durante uno scontro sui Monti dove si era rifugiato. La Guardia di Quinalth ebbe allora come ricompensa i territori a Nord di Telthartown ed a Sud dei Monti delle Nebbie. In quel luogo fondò una Città che presto divenne fiorente, il cui nome era Lot.»
«E del figlio del Mago cosa avvenne?».
«Ero sul punto di parlartene. Anche il figlio di Hotalth era uno dei più grandi Maghi oscuri dell’epoca, ed il suo intento era, dopo la morte del padre, di conquistare la Città fondata dai suoi più acerrimi nemici. Honorius, questo è il suo nome, riuscì, dopo un lungo e sanguinoso scontro ad invadere la Città di Lot, ma i suoi abitanti riuscirono a rifugiarsi in una Cittadella fortificata, dove ancora oggi sono in guerra contro l’Esercito del Mago».
Zephyr tornò a fissare il medaglione con il simbolo di colui che aveva distrutto la sua famiglia, ed ora non più una lacrima scorreva sul suo volto, che pareva ardere d’un fuoco che gli avvampava nell’animo. Una voce gli impediva di ignorare che il suo dovere era quello di unirsi a coloro che ancora combattevano, come un tempo suo padre, contro un potere oscuro, ma non invincibile.
Lentamente si rialzò, infilando in una tasca della tunica il medaglione ed avvolgendosi nuovamente nel suo scuro manto. Ser Atroth pareva aver compreso quel che attendeva il giovane Elfo.
«Ti recherai alla Cittadella di Lot, dunque? Ti unirai a coloro che combattono contro Honorius?».
Lo sguardo determinato di Zephyr non era più quello del ragazzo di pochi istanti prima; la sua volontà era quella che tanti anni addietro apparteneva a suo padre ed ora sapeva quel che l’attendeva.
«Verrai con me a Lot, Sir Atroth?».
Ora un sorriso s’aprì sul volto dell’Elfo, che attendeva e sperava allo stesso tempo che quella domanda gli venisse rivolta.
«Sarò al tuo fianco, qualunque via deciderai di intraprendere, ma non adesso. Un compito mi attende da portare a compimento, prima ch’io possa raggiungerti. Attendi il mio arrivo dopo che una nuova luna a partire da oggi si affacci sulle Terre dell’Ovest. Per quella notte, io sarò a Lot».
Con queste parole, i due si strinsero la mano e presero due differenti direzioni. Zephyr lanciò il suo cavallo al galoppo in direzione Nord, seguendo una via che sapeva essere già stata tracciata tanti anni addietro. In quel momento, i primi raggi del sole si affacciarono timidi oltre l’oscura coltre di nubi, illuminando la collina dove s’ergeva il tumulo e le rocce che lo custodivano, ed egli sapeva che suo padre e sua madre erano al suo fianco.

Zephyr
Adepto dell’Arcana Saggezza

 

 


 

~¤~ La storia di Zephyr ~¤~