Un cupo fronte di nubi s’accavallava 
            oltre l’oscure cime dei Monti a Nord, simili a schiere di neri 
            destrieri lanciati al galoppo all’avanguardia d’una lugubre 
            Armata, quando gli ultimi raggi del sole lambirono pallidi le possenti 
            Mura del Presidio e le Dodici Torri argentee, che rilucevano della 
            sfolgorante magnificenza dei Signori di Telthartown. Le Torri del 
            Presidio, ultimo baluardo prima delle selvagge Terre del Nord, parevano 
            la punta d’una lama levata a monito incontro a chiunque avesse 
            osato insidiare il potere degli Umani dell’Ovest.
            I primi tuoni, fremiti indistinti del lontano tumulto, giunsero all’udito 
            d’un Uomo affacciato ad una delle finestre della Torre estrema, 
            dominante la Città e la piana circostante con la sua alta ombra. 
            Il suo sguardo pareva mirar lungi da quei luoghi, perdendosi oltre 
            i Confini delle Terre conosciute, uno sguardo in cui gli anni si smarrivano, 
            occhi abili nel soggiogar la mente d’un nemico come nell’aspergersi 
            di tenera commozione, legati solamente dalle catene del suo volere. 
            Il lento ed inesorabile incedere delle stagioni cominciava comunque 
            a lasciar i suoi segni sull’alta fronte, segnata di traverso 
            da una profonda cicatrice, memoria d’una battaglia che aveva 
            lasciato la sua impronta anche nell’animo d’uno dei più 
            grandi guerrieri che l’Occidente avesse mai veduto.
            Il colore del cielo lento cangiava in tonalità indistinte, 
            offuscate dall’approssimarsi delle tenebre, ma l’Umano 
            non pareva accorgersene. La sua mente era distante dalla Città, 
            intenta a scavar le nebbie che iniziavano ad attanagliare i suoi pensieri, 
            cinti da una cupa preoccupazione.
            Eppure, sino ad allora, mai s’era ritrovato a temer nulla e 
            nessuno, conscio della sua forza e della sua astuzia, sconosciute 
            a quasi tutti gli Umani che la Morte non aveva ancora chiamato al 
            suo cospetto, virtù che l’avevano condotto a conquistare 
            la nobil cotta di Guardia del Principe della città di Quinalth, 
            Sire Celthigar.
            Da tempi immemori, i Reggenti della Corte di Quinalth, Cittadella 
            fondata dagli Umani dell’Ovest lungo le sponde meridionali del 
            Fiume Azzurro, erano soliti affidar all’Erede del Principe la 
            difesa d’una Guardia, scelta fra i più valorosi giovin 
            vassalli del feudo, ch’avrebbe condotto il figlio maschio sino 
            alla maggior età e la femmina sino al matrimonio; ed egli avrebbe 
            vegliato sul cammino del giovane Erede secondo un giuramento sancito 
            sino alla morte.
            In quei giorni, nuovi legami stavano maturando far i due grandi feudi 
            ed il giovane Principe Celthigar era a capo d’una ambasceria 
            giunta nella Città di Telthartown con gl’intenti di porre 
            la firma a nome del Sovrano su di un trattato di non belligeranza 
            fra le Città, primo passo verso accordi di pace e fratellanza 
            sconosciuti dai giorni in cui gli Umani dell’Ovest decisero 
            di separarsi in Regni distinti.
            La fratellanza che andava a ricostituirsi dopo secoli di terrore e 
            diffidenza fra Umani di una stessa stirpe sferrava, però, un 
            duro colpo a quelle che erano le ambizioni di molti il cui obiettivo 
            era quello d’erigere un Impero fondato sul terrore e sulla sottomissione 
            ad un unico Sovrano, detentore solitario delle redini del potere. 
            
          La Guardia non aveva dimenticato 
            l’alba di molti anni addietro, l’aria immobile del mattino 
            in cui l’accampamento delle truppe d’avanguardia dell’Esercito 
            di Quinalth, incaricate dell’esplorazione dei confini occidentali 
            dei Monti, s’erano destate ad un improvviso fremito della terra, 
            ad un rombo sempre crescente cui era seguito, come il lampo segue 
            il fragore del tuono, l’assalto d’una miriade di Goblin, 
            le bocche distorte schiuse in un ghigno che mai egli aveva veduto 
            sino ad allora, una ferocia che, per buona sorte degli Uomini, non 
            era accompagnata da un attacco organizzato secondo i rigorosi schemi 
            di battaglia, un colpo che altrimenti si sarebbe inferto mortalmente 
            sui Cavalieri sorpresi e per un istante incapaci di reagire.
            Un sonno tormentato cingeva le membra della Guardia, che riposava 
            al riparo d’una alta quercia, che spandeva nell’aria del 
            mattino il suo pungente aroma di muschi e licheni impregnati di brina. 
            Allorché le prima urla degli assalitori s’abbatterono 
            sul campo degl’Uomini, egli si svegliò all’improvviso, 
            il torpore che attanagliava le membra subitanea scomparsa al sentore 
            del pericolo, la destra che fulminea era corsa all’elsa della 
            sua vecchia daga, il freddo metallo che in un lampo già solcava 
            l’aria, assetato di sangue nemico. Dopo un istante di straniamento, 
            che risultò fatale alle sentinelle di guardia al campo, alle 
            urla confuse dei goblin si aggiunsero gli ordini e gli incitamenti 
            del Comandante delle truppe, che ora difendeva a spada tratta i suoi 
            Cavalieri.
            Lo scontro fu terribile. La memoria della Guardia si perdeva nel tumulto 
            che era subito seguito all’attacco, nel rumore del metallo contro 
            il metallo, nelle grida di rabbia e di dolore, in immagini indistinte 
            di Cavalieri e di Goblin che cadevano morti nella radura.
            Il sudore, misto al sangue dei nemici, imperlava il suo volto quando, 
            in cima alla collina che dominava il teatro della battaglia, un solo 
            cavaliere, celato da un drappo vermiglio che ne nascondeva il volto, 
            osservava in silenzio l’evolversi dello scontro. La Guardia 
            s’era arrestata, nel mirare quella creatura, molto più 
            alta e snella dei normali Goblin, la cui immobilità appariva 
            sotto un’aura inquieta e stranamente foriera di terrore. Il 
            Comandante, che aveva seguito il suo sguardo, comprese il carisma 
            che quell’essere possedeva ed il suo ascendente sulle creature 
            che li avevano assaliti, e, con uno scatto repentino, iniziò 
            a correre lungo il fianco dell’altura, un’ombra che si 
            muoveva come in un sogno, decisa a porre fine al combattimento in 
            proprio favore.
            Avvedutosi del gesto del suo Capitano, la giovane Guardia di Quinalth 
            cominciò a farsi strada fra le fila nemiche che andavano sempre 
            più assottigliandosi, afferrando all’istante ciò 
            che poteva significare un’azione sì disperata, per la 
            vittoria.
            Il suo animo ardeva del desiderio d’accorrere al fianco del 
            suo Capitano per quello scontro avvolto nell’oscure tenebre 
            dell’incertezza, la convinzione che qualcosa di terribile sarebbe 
            avvenuto di lì a pochi istanti che tuttavia si scontrava con 
            le difficoltà sempre maggiori che il suo corpo, stremato dai 
            colpi ricevuti, provava nell’arrancare al seguito della sua 
            ferma volontà.
            Giunto al limitare della collina, s’arrestò stremato 
            dalla fatica e dal dolore, lo sguardo offuscato che cercava disperatamente 
            di discernere quanto più in alto stava avvenendo. 
            Ad un tratto li scorse. Figure indistinte, ascose fra l’ombre 
            dei ceppi sul ciglio dell’altura, il Comandante, coperto solamente 
            d’una tunica grigia lacera e macchiata di sangue che iniziava 
            a rapprendersi, indietreggiava cercando di tenere testa al suo avversario, 
            una visione che destava ammirazione e timore, le movenze che si fondevano 
            incontro al fosco chiarore del sole dell’aurora in una fiamma 
            indistinta. Il valore che distingueva l’Umano iniziava chiaramente 
            a dissolversi nello sfinimento che cominciava a rallentare i suoi 
            riflessi e la figura ammantata di vermiglio era sul punto d’avere 
            la meglio, quando s’avvide d’un secondo Umano che saliva 
            rapidamente il fianco della collina, armato d’una sola daga, 
            lo stemma della Casa regnante di Quinalth che appariva sulle sue vesti. 
            
            La Guardia era giunta a pochi passi dal luogo ove si stava consumando 
            lo scontro quando scorse con orrore il suo Capitano, inginocchiato 
            al fianco d’una roccia, la mancina stretta alla gamba dove scura 
            si ingrandiva una macchia di sangue, ed il suo avversario che con 
            un fendente intriso di gelida soddisfazione attingeva con un ghigno 
            invisibile alla vittoria.
            Il tempo si fermò per un istante, il volto tranquillo del Capitano 
            di Quinalth che si levò per un’ultima volta nell’osservar 
            quello del Cavaliere che l’aveva sconfitto, prima di reclinarsi 
            su una spalla, mentr’egli cadeva inerte ai piedi della roccia 
            che ora iniziava ad illuminarsi del sole del mattino.
            Come un fiume in piena s’abbatte su deboli argini in legno, 
            la rabbia iniziò a dirompere nell’animo della Guardia, 
            mescolandosi al dolore, infondendo nel suo corpo esausto la forza 
            di lanciarsi, la daga stretta convulsamente nella destra, sulla figura 
            che s’era portata la vita del valoroso Umano.
            Sopraffatto dallo stupore ch’era sopraggiunto alla vista d’un 
            nemico ch’appariva ferito e spossato, il Cavaliere indietreggiò 
            bruscamente, nel tentativo di difendersi dalla furia improvvisa che 
            s’era scagliata contro di lui, mentre la sicurezza dei suoi 
            movimenti vacillava, e si trovò addossato alla roccia ai cui 
            piedi era caduto il Capitano di Quinalth. Con uno colpo sgualembro 
            in cui infuse ogn’energia che gl’era ancora rimasta, la 
            Guardia colpì con violenza inaudita il braccio destro del Cavaliere 
            una spanna al di sotto della spalla, ed avvertì lo stridulo 
            rumore del metallo infranto, mentre un gemito venne dal suo avversario 
            che cadde su di un fianco, stringendo convulsamente il braccio gravemente 
            ferito. 
            La figura stramazzata per terra del nemico fu l’ultima visione 
            della Guardia, prima che un dolore improvviso alla fronte lo fece 
            sprofondare nel buio abisso dell’incoscienza.
            Quando si destò, avvolto fra le coperte d’un giaciglio 
            in una tenda da campo, le fitte lancinanti che s’insinuavano 
            fra le bende che gli avvolgevano il capo, seppe del trionfo dei Cavalieri 
            contro l’orda dei Goblin, che, ad un tratto, inspiegabilmente 
            s’erano voltati verso una delle colline che sovrastavano la 
            valle costiera dove si trovava il campo degli Uomini ed erano fuggiti 
            recando con loro un cavallo su cui era china una figura ammantata 
            di vermiglio. Allora gli tornò alla mente l’ultimo scontro 
            contro quel Cavaliere, ed insieme si ridestò il dolore per 
            la perdita del Capitano. Uscito dalla tenda, scorse molte figure di 
            Cavalieri intenti a medicare i numerosi feriti ed un manipolo di guerrieri, 
            in vesti ufficiali, di fronte ad un tumulo innalzato sul ciglio d’una 
            collina, accanto ad una roccia avvolta nella calda luce del tramonto.
          L’immagine del Cavaliere, 
            sconfitto in duello tanti anni addietro, era rimasta indistinta nella 
            sua mente come la cicatrice che gli attraversava la fronte, reliquia 
            del colpo subito da un nemico che egli non avrebbe mai conosciuto.
            La paura che egli aveva provato in quel momento che ora gli sembrava 
            appartenere ad un’altra epoca erano però vagamente simili 
            al timore ed all’incertezza che ora gl’incupivano i pensieri 
            e le risposte che vagamente cercava di trovare al dubbio che l’assillava 
            rapidamente si dissolvevano lasciando luogo ad una nuova, profonda 
            preoccupazione.
            Erano trascorsi sette giorni da quando era partito dalla sua casa, 
            immersa fra le vaste distese d’erba al limitare della Pianura 
            dell’Acqua, sul versante occidentale del bacino del fiume Azzurro, 
            e rammentava l’immagine stremata e radiosa al tempo stesso della 
            sua sposa, i suoi lunghi capelli castani sparsi intorno al viso, il 
            suo sguardo segnato dalle fatiche del parto. E mai avrebbe scordato 
            sino alla fine dei suoi giorni il vagito che aveva rotto il silenzio 
            dei colli su cui spiravano i freddi Venti del Nord, il corpo fragile 
            e delicato di suo figlio che veniva al mondo, i suoi occhi castani 
            come gemme infisse nel viso incorniciato dai capelli color dell’oro, 
            il calore d’una lacrima che gli attraversava le guance nel mirar 
            il volto del loro primogenito.
            Raccolta velocemente la sua sacca da viaggio, aveva sfiorato con un 
            bacio la fronte di sua moglie Niven e di suo figlio Antioco, restando 
            immobile per un istante ad osservar il suo Erede, prima di uscire 
            di casa per raggiungere le milizie del Principe Celthigar, accampate 
            poco distante sulla via per Telthartown. Prima di partire, aveva affidato 
            la protezione della sua famiglia a tre Sacerdoti delle Lune gemelle 
            Luri, Neft e Uri che aveva scelto come Precettori di suo figlio per 
            gli anni a venire e si era raccomandato di inviargli una missiva ogni 
            cinque giorni per il tempo che sarebbe stato lontano da casa, per 
            tenerlo informato delle condizioni di salute di suo figlio e di sua 
            moglie, che era rimasta molto provata dal parto.
            Con queste rassicurazioni era partito per il campo del suo Principe, 
            dirigendosi indi alla volta della Città di Telthartown.
          
            II
          Le prime gocce di pioggia cominciavano 
            ora a martellare, incessanti come il triste rintocco d’una campana 
            funebre, le pietre coperte d’un velo di muschio delle mura della 
            Torre, recando con loro una folata del gelido vento che scendeva dai 
            Monti delle Nebbie, avvisaglie del temporale imminente ormai a scagliarsi 
            contro la Città al tramonto. 
            “Devo partire, immediatamente”. Questo pensiero s’affacciò 
            alla mente della Guardia come l’unica possibilità che 
            gli restava, conscio del fatto che nulla di normale poteva aver spinto 
            i Sacerdoti a non inviargli una sola notizia dal giorno in cui era 
            partito da casa; e, mentre scendeva a passi rapidi le scale della 
            Torre del Presidio, diretto verso le stalle reali, il suo pensiero 
            era fisso sull’immagine di sua moglie e di suo figlio che lo 
            osservavano allontanarsi, un triste presagio che non abbandonava il 
            suo animo in tumulto.
            Legata saldamente al ventre del suo destriero una bisaccia di viveri 
            e d’acqua che gli sarebbero serviti lungo il viaggio, infilata 
            la daga in un fodero nascosto nella sella, montò a cavallo 
            senza proferire parole con i sorveglianti che lo osservavano con palese 
            meraviglia e partì come un lampo, avvolto in uno scuro mantello 
            che lo difendeva dalla pioggia battente.
          Il tonfo sordo del legno dell’uscio 
            riportò l’Umano alla vita dal dolce tepore del sonno 
            in cui giaceva, le prime luci dell’aurora che iniziavano ad 
            incunearsi fra le fessure del casolare a poca distanza dalla casa 
            della Guardia di Quinalth, un rumore ritmico e snervante, che lo costrinse 
            ad alzarsi di malavoglia dal letto ed a muoversi, il passo malfermo, 
            verso la porta d’ingresso, mentre si legava con movimenti resi 
            fluidi e precisi dall’abitudine il cordone che cingeva la sua 
            veste scura con rifiniture dorate di Sacerdote della Luna Uri. Lo 
            sguardo incrociò per un momento la figura del suo fratello 
            ancora addormentato nella stanza attigua, destando una stilla di invidia 
            subito svanita ad una nuova serie di colpi ai battenti della porta.
            Cinque giorni erano trascorsi da quando la Guardia Reale di Quinalth, 
            partita insieme al Principe verso le Terre del Nord, aveva affidato 
            loro la protezione della sua famiglia e, tuttavia, non aveva mai preso 
            in seria considerazione l’eventualità di rispolverare 
            la sua abilità bellica, non riuscendo a pensare ad un nemico 
            con le intenzioni di attaccare una tranquilla villa di campagna; ma 
            l’ordine di vegliare sulla famiglia della sua Guardia era giunta 
            direttamente dal Sovrano ed a loro non era dispiaciuto poter trascorrere 
            alcuni giorni lontano da Quinalth.
            «Abbiate la compiacenza d’attendere, chiunque voi siate», 
            rispose seccamente il Sacerdote alla fastidiosa insistenza dello sconosciuto 
            che non accennava a smettere di bussare.
            Schiuso per metà l’uscio del casolare, il Sacerdote si 
            ritrovò di fronte la figura alta d’un Umano di mezza 
            età, coperto solamente d’un mantello logoro in molti 
            punti, lo sguardo vagamente visibile nell’oscurità del 
            primo mattino, la corporatura alta e snella, un portamento austero 
            che mal si conciliava con l’apparente aspetto di mendicante 
            delle sue vesti, una profonda cicatrice chiaramente visibile sul braccio 
            destro scoperto, poco al di sotto della spalla.
            Un ghigno carico di soddisfazione attraversò per un istante 
            il volto dello sconosciuto, o almeno così parve al Sacerdote, 
            che troppo tardi s’accorse del baluginio d’una lama che 
            apparve come per incanto dalle trame del mantello.
            L’immagine d’un Umano coperto di sangue, avvinghiato disperatamente 
            ad una colonna del Tempio delle Tre Lune a Quinalth, s’insinuò 
            ad un tratto nel sonno del Sacerdote di guardia nella casa della Guardia, 
            svegliandolo di soprassalto, fredde gocce di sudore che iniziavano 
            ad imperlargli la fronte. “Un incubo, null’altro che un 
            cattivo sogno”, fu il suo primo pensiero, che, tuttavia, non 
            lo convinceva del tutto, ed indi si decise a lasciare il suo giaciglio, 
            i primi raggi del sole che iniziavano a filtrare dalle tende che oscuravano 
            l’angusta stanza al piano terreno.
            Un urlo soffocato, o almeno così gli parve di udire, giunse 
            dall’esterno dell’abitazione, mozzandogli il respiro in 
            petto, mentre la mano correva freneticamente al suo pugnale riposto 
            su di un baule vicino al letto. Scostate d’un palmo le imposte, 
            socchiuse gli occhi abbagliati dalla luce del sole che sorgeva al 
            di là delle colline ad Est del Fiume Azzurro, e scorse un’alta 
            figura avanzare a passi veloci lungo il crinale che separava la magione 
            della Guardia dal casolare dove s’erano sistemati i suoi due 
            fratelli.
            In un attimo comprese; il volto dell’Umano agonizzante gli si 
            dischiuse in una improvvisa rivelazione, lo sguardo del Sacerdote 
            di Uri implorante che gli volgeva un ultimo avvertimento prima di 
            morire. Senza indugiare ancora, corse su per le scale che portavano 
            alla camera di dama Niven e, spalancato l’uscio, la trovò 
            ancora addormentata con al fianco suo figlio Antioco, una scena di 
            placida tenerezza di fronte al tragedia che si stava consumando.
            «Mia Signora, non v’è un istante da perdere….», 
            disse, mentre sprangava l’uscio, alla donna che s’era 
            appena destata. Raccolta una sacca di tela, vi infilò alla 
            rinfusa alcuni abiti e spalancò la finestra, che si apriva 
            sul retro della casa, da cui una stretta scala in pietra scendeva 
            nel prato dove si trovavano le stalle della magione. Senza avere il 
            tempo di porre alcuna domanda, la giovane si ritrovò ad essere 
            trascinata per una mano dall’Umano, stordita e confusa dal brusco 
            risveglio e da quanto stava avvenendo, il figlio ancora assopito fra 
            le braccia.
            Erano giunti in un fiato alla base della scala ed il vento, levatosi 
            fra gli alberi che circondavano la magione con un cupo sospiro, strappò 
            un brivido a dama Niven, che si voltò impaurita verso il suo 
            Protettore: «Quale la ragione di questa fuga? Dove ci dirigiamo?»
            Il Sacerdote, che intanto avanzava a rapidi passi verso le stalle 
            poco distanti, guardò il volto pallido della giovane donna 
            e rispose con voce affannata: «Le peggiori previsioni che mi 
            furono confidate il giorno in cui ebbi l’incarico di proteggervi 
            si stanno avverando, mia Signora…. I nemici del Re ci hanno 
            scoperti, impreparati ed indifesi, ed io devo portarvi via da questi 
            luoghi prima….». La frase morì in un rantolo di 
            dolore, nell’istante in cui un dardo scuro si conficcava sotto 
            le vesti del Sacerdote, poco più in alto del torace, lasciando 
            l’Uomo fermo là dove si trovava, prima che le ginocchia 
            cedessero sotto il peso del corpo senza vita.
            Un gemito di terrore venne dal petto di Lady Niven, mentre osservava 
            la figura accasciarsi lentamente, gli occhi che cangiavano in una 
            sfumatura vitrea, il pallore della morte che si disegnava sui lineamenti 
            corrugati del volto. Istintivamente, si voltò verso la finestra 
            dalla quale s’erano allontanati e, illuminato dai freddi raggi 
            del sole nascente, scorse un Uomo solamente, alto e vestito d’un 
            lacero manto, che ancora imbracciava un arco, e che ora, senz’ombra 
            di dubbio, fisso aveva il gelido sguardo su di lei. Senza indugiare 
            per solo momento, nella vana speranza di sfuggire ad un pericolo che 
            ora le appariva reale, la giovane si lanciò con uno scatto 
            disperato verso le imposte aperte della stalla, infilandosi nell’ombra 
            satura dell’acre odore del fieno umido e richiudendo rapidamente 
            la porta alle sue spalle. Restò immobile per un istante, il 
            fiato che disegnava pallide nuvole nell’oscurità ed il 
            cuore che le pareva volesse sfuggirgli dal petto. Vagamente udì 
            il flebile nitrito di due cavalli poco distanti, mentre la vista iniziava 
            a distinguere nel buio l’ambiente che la circondava.
            Nonostante la mente s’affannasse nel cercare una via d’uscita, 
            un ultimo approdo di salvezza, con orrore presto s’accorse che 
            non le restava molto da vivere, che lo sconosciuto assalitore era 
            lì per lei…. e per suo figlio. Scostando le coperte in 
            cui era avvolto, scorse le candide sfumature del volto, il corpicino 
            addormentato fra le sue braccia, apparentemente distante da tutto 
            quel che avveniva attorno a lui. Sentendo che ogni attimo poteva essere 
            l’ultimo, depose il fagotto di lana in cui il piccolo Antioco 
            era ascoso fra due cumuli di paglia in una mangiatoia d’un alveo 
            vuoto, in un ultimo tentativo di offrire a suo figlio una flebile 
            speranza di salvezza, e si fermò di fronte al portone, restando, 
            con calma apparente, in attesa di quel che di lì a poco sarebbe 
            seguito.
          Il cavallo stramazzò a 
            poche decine di metri dalla staccionata che delimitava i prati in 
            cui era cresciuto, sbalzando il suo cavaliere sull’erba fradicia 
            di pioggia e restando immobile sul suo fianco. Aveva cavalcato a velocità 
            sempre crescente per tutta la notte, seguendo le nuvole che avanzavano 
            verso Sud e trovandosi ben presto nell’infuriare del temporale 
            che ora stava per abbattersi sulla Città di Quinalth. 
            Facendo leva sulle energie rimaste, la Guardia s’alzò 
            dal fango ed iniziò a correre verso la sagoma della casa dove 
            aveva lasciato otto giorni prima la sua famiglia, distinguendo a malapena 
            le solide mura di travi e pietra nell’oscurità dell’alba 
            occultata dalla pioggia battente. Un cupo silenzio regnava nei dintorni 
            della magione, carico d’un terrore sconosciuto, che avvolgeva 
            e opprimeva l’animo come un manto ch’offusca la luce del 
            sole. Pregando in cuor suo la Dea di fargli ricever risposta, bussò 
            con decisione ai solidi battenti della porta d’ingresso e si 
            fermò ad attendere un suono od una voce che non sarebbero mai 
            giunti. Non udendo nulla giungere dall’interno, iniziò 
            a correre disperato intorno alla casa, senza curarsi della pioggia 
            che ora incessante gli sferzava il volto, offuscandogli la vista. 
            Giunto nel prato alle spalle della magione, scorse la porta della 
            stalla spalancata ed il buio in cui era avvolto il suo interno. 
            Era avanzato di qualche passo incontro al basso edificio, quando avvertì 
            con violenza inaudita un dolore improvviso alla spalla, che lo scaraventò 
            in avanti d’un paio di metri, tramortendolo. Stava per perdere 
            i sensi, quando gli tornò alla mente il ricordo di sua moglie 
            e di suo figlio, e trovò la forza di sollevarsi su di un braccio, 
            mentre un cupo fiotto di sangue s’univa alla pioggia in una 
            macchia scura sull’erba. Una voce che egli non aveva mai udito 
            prima d’allora si levò al suo fianco, gelida e tagliente, 
            mal celando un odio enorme, insinuandosi nel suo animo e raggelandolo: 
            «I vostri giorni su queste Terre volgono al termine, Messer 
            Hadrian…. Oggi s’è compiuto quel che sarebbe dovuto 
            avvenire tanti anni addietro, e la vostra Dea non è riuscita 
            ad evitarvi la morte una volta ancora. Ho atteso troppo a lungo quest'istante 
            ed ora ho portato a termine il mio dovere….»
            Attraverso la pioggia ed il dolore che iniziavano ad annebbiargli 
            la vista, la Guardia scorse il braccio che impugnava una lunga spada 
            sporca di sangue, attraversato al di sotto della spalla da una profonda 
            cicatrice di cui egli era stato l’artefice e comprese che la 
            fine era arrivata. 
            Con un movimento fulmineo, la spada si piantò nel ventre della 
            Guardia di Quinalth, e un velo d’oscurità iniziò 
            a posarsi sui suoi pensieri, il vento freddo del Nord che si abbatteva 
            intorno al corpo su cui la Morte stava per posarsi.
            Rinfoderata l’arma, il Cavaliere sfregò con forza un 
            acciarino che aveva sfilato da una piccola sacca di cuoio ed iniziò 
            ad appiccare fuoco al cumulo di paglia che aveva accatastato accanto 
            alla parete in legno della casa, conscio che il suo compito era giunto 
            al termine, macchiato, però, da una pecca che avrebbe sempre 
            continuato a tormentarlo. Indi, s’avvolse intorno al corpo un 
            mantello vermiglio e scomparve nell’oscurità, allontanandosi 
            per sempre da quei luoghi.
            Nell’istante in cui la vita stava per lasciare il corpo della 
            Guardia, fra le tenebre che avevano avvolto le sue membra esanimi, 
            una luce, dapprima flebile ed indistinta ed a mano a mano sempre più 
            accecante, iniziò ad insinuarsi nella sua mente, levando un 
            soffio di calore nell'animo. Come in un sogno, una visione d’improvviso 
            apparve agli occhi dell’Umano, un’immagine angelica e 
            foriera di timore al tempo stesso, simile ad una donna avvolta in 
            vesti raggianti del sole del mattino, sospesa su di una tempesta di 
            fuoco che la avvolgeva e pareva inondare il suo corpo esile e delicato. 
            Ad un tratto, una voce giunse, o così gli parve, da quella 
            visione, una voce limpida e soave che destò un tremito nel 
            profondo del suo animo e che egli comprese pur senza averla udita, 
            poche parole che rapirono i suoi pensieri e lo allontanarono dal dolore 
            e dalla sofferenza: «Il tuo cuore è puro, Servitore dell’Esistenza, 
            e sarai accolto al fianco della tua sposa e dimorerai insieme alle 
            anime degli Umani Valorosi che ti hanno preceduto; ma non desidero 
            che il tuo sangue su questa Terra si estingua e che coloro che ti 
            hanno portato alla morte restino impuniti. Tuo figlio, in cui ancora 
            alberga un alito di vita, sarà l’Erede della tua vendetta 
            e del tuo Valore, del tutto simile al padre se non per la stirpe cui 
            apparterrà. Io lo renderò simili ad i miei figli prediletti; 
            d’ora sino alla fine non sarà più Umano, ma Elfo.»
            Con il conforto di queste parole, la vita lasciò il corpo della 
            Guardia e, nel medesimo istante, un raggio di luce s’aprì 
            una via fra le nubi che oscuravano il cielo e scese sulla stalla della 
            magione, illuminando il corpo d’un bambino nascosto vicino un 
            cumulo di paglia, e la sua natura umana mutò per sempre in 
            quella d’un Elfo.
          
            III
          L’odore acre e pungente 
            del legno d’olivo che ardeva nell’alto focolare in pietra 
            iniziò a spandersi rapidamente per la camera, una bassa stanza 
            di tronchi di pino costiero arredata in maniera spartana ma intrisa 
            d’un particolare fascino che le davano un numero impressionante 
            di manufatti provenienti da Terre sconosciute ai più, oggetti 
            di ogni genere che tradivano lo spirito esotico di chi aveva trascorso 
            una vita nel collezionarli. Il tempo dei lunghi viaggi lungo le coste 
            del Continente e per le isole dell’Oceano erano, però, 
            quasi giunti al loro tramonto per l’Umano che ora sedeva su 
            un treppiede d’acero, affacciato alla finestra che dava sul 
            brullo paesaggio dei Colli Ventosi di Ponente, una landa disseminata 
            d’alture dove cresceva una rada vegetazione, le ultime propaggini 
            della catena dei Monti delle Nebbie che degradava lentamente verso 
            il Mare a Ovest. Il sole era scomparso da poco oltre l’orizzonte 
            a Oriente, tingendo di un rosso acceso che ora cangiava in tonalità 
            più fosche il cielo disseminato da strascichi di pallide nubi, 
            ed una leggera brezza cominciava a smuovere le cime degli alberi intorno 
            alla piccola costruzione, l’unica traccia di civiltà 
            sino a molte miglia in ogni direzione.
            All’improvviso, un’ombra scura apparve sullo sfondo delle 
            alture, avvicinandosi rapidamente in direzione della casa di tronchi, 
            quasi fosse trasportata dal vento di Levante. Il vecchio si sollevò 
            a fatica dal treppiede, scuotendo con aria stanca il capo, e spegnendo 
            il braciere della pipa di radica che sino ad allora aveva tenuta stretta 
            fra i denti. Non s’era allontanato che di pochi passi dalla 
            finestra, quando la porta si spalancò con un flebile cigolio, 
            lasciando che una folata di vento s’insinuasse nella stanza, 
            facendo crepitare le fiamme nel camino. Sulla soglia era ferma la 
            figura, non molto alta, d’un Elfo di corporatura snella e longilinea, 
            il volto dagli zigomi alti e dal colorito debolmente abbronzato, i 
            capelli color dell’oro scendevano quasi sino alle spalle, gettando 
            un’ombra scura sull’alta fronte e sugli occhi d’un 
            castano scuro; non mostrava più di vent’anni, pur avendo 
            da una stagione superati i trentuno ed un chiaro sorriso era aperto 
            sul suo volto, mentre avanzava raggiante in direzione del vecchio.
            «Salute a te, padre; non sembri essere felice ch’io sia 
            tornato…». La voce era limpida, ma tradiva un tono che 
            stava cangiando nelle note profonde della maturità.
            «Non è strano, se consideri che sei via da una giornata 
            intera ormai…. Eri uscito solamente per portare un po’ 
            di provviste fresche dopo l’Inverno, ma pare tu abbia preferito 
            goderti la giornata di sole per scomparire di casa».
            Il giovane posò sul tavolo della camera un lungo arco in legno 
            di castagno e quattro giovani lepri, cacciate quello stesso giorno. 
            Non era estraneo a trovare il padre preoccupato, al ritorno da una 
            battuta di caccia, ma non mancò d’avvertire un cenno 
            di tristezza nella sua voce, che lo aveva lasciato turbato.
            «Ti conosco bene, padre; v’è qualcosa che ti preoccupa 
            e ti supplico di dirla ora, prima di continuare a cercare di nasconderla.».
            L’Umano era conscio di non poter attendere oltre, che suo figlio 
            non avrebbe desistito sino a quando non avrebbe rivelato ciò 
            che da una vita aveva sempre cercato di dimenticare.
            «Seguimi, Zephyr…. E’ tempo che tu comprenda quel 
            che ho sempre cercato di non rivelarti, ma che non può attendere 
            oltre». Distolto lo sguardo dal figlio, s’avvio su per 
            la scala che conduceva nella soffitta della casa, seguito immediatamente 
            dal giovane Zephyr che non sapeva se sentirsi impaurito o affascinato 
            da quel che il padre intendeva rivelargli.
            Giunti nella vasta camera posta al di sotto del tetto spiovente della 
            costruzione, il tanfo della polvere li investì all’istante, 
            ed il respiro subito divenne affannoso nell’aria satura di umidità. 
            Una quantità imprecisata, ma sicuramente enorme, di mobili, 
            armi, arnesi di ogni genere riempiva la stanza, lasciando poco spazio 
            in cui muoversi; ma l’Umano si diresse a passi decisi verso 
            un vecchio scrittoio tarlato, che pareva aver dimenticato il tempo 
            in cui affondava le radici nella terra delle colline costiere. Il 
            pianale appariva però ben ripulito, cosa che meravigliò 
            l’Elfo mentre attendeva con curiosità sempre crescente 
            quel che sarebbe avvenuto. Dopo aver scostato alcune carte, il padre 
            prese una pergamena ed una sacca di cuoio dal piano dello scrittoio, 
            avvicinandosi al figlio con lo sguardo basso sulle parole abilmente 
            vergate.
            «Sovente mi domandavi la ragione per cui un Elfo, quale tu sei, 
            appartenesse ad una famiglia umana, vedendo chiuso il discorso con 
            risposte fugaci e lapidarie, senza che realmente ti fosse chiara la 
            verità.».
            «Voi siete sempre stati come dei genitori per me, quale che 
            fosse la verità, e nulla nei miei dubbi raffigurava un desiderio 
            di partire da questa casa, perché voi siete la mia famiglia, 
            qualsiasi cosa tu debba dirmi». Il tono era imperioso, ma tradiva 
            una forte emozione che a stento il giovane cercava di reprimere.
            «Sappi che il mio più grande desiderio è quello 
            di vederti restare vicino a me, ma non posso più impedirti 
            di conoscere la tua vera Natura, le tue vere origini; è la 
            coscienza che mi spinge a far sì che tu vada incontro alla 
            vita che ti appartiene, ed ora è giunto il momento di incamminarsi, 
            figlio mio…». Con un tremito nei gesti, consegnò 
            la pergamena ed il fagotto al giovane Zephyr, restando fermo ad osservarlo 
            con gli occhi che si inumidivano d’una lacrima.
            «Colui che ti ha condotto alla soglia della mia casa, una notte 
            di pioggia di trentun’anni or sono, vuole vederti; ha scritto 
            in questa lettera, che ho trovato sull’uscio poche ore dopo 
            il culminare del sole, come raggiungerlo; dovrai anche indossare al 
            collo il medaglione contenuto in questo sacchetto, perché egli 
            possa riconoscerti».
            Zephyr sciolse i legami che chiudevano la stoffa e fece scivolare 
            fra le mani un disco metallico non molto pesante, che svelava al di 
            sotto d’un velo d’ossido tenui riflessi argentei; il disegno, 
            impresso chiaramente al centro del medaglione, recava un simbolo solamente, 
            un'H stilizzata, di colore vermiglio e vagamente inquietante. L’Elfo 
            sapeva d’essere di fronte alla porta che dava su di una vita 
            a lui sconosciuta.
          Il sole non era ancora sorto dalle 
            colline a Occidente, quando Immanuel McTanar uscì dalla casa 
            che per tanti anni aveva ospitato un figlio donatogli dal destino, 
            come gli piaceva sovente immaginare.
            Rammentava ancora chiaramente la notte dell’Equinozio d’Autunno 
            di trentun’anni addietro, quando un alto Cavaliere ch’egli 
            non aveva mai veduto prima d’allora aveva bussato alla sua porta 
            e gli aveva affidato un bambino avvolto fra logore coperte, che egli 
            riconobbe subito come un Elfo, facendosi promettere di proteggerlo 
            sino a quando sarebbe stato pronto a conoscere la verità. Immanuel 
            non aveva avuto obiezioni di sorta ed accettò di buon grado 
            un dono che gli era giunto ad un anno appena dalla morte di sua moglie, 
            durante uno dei suoi lunghi viaggi per mare.
            Man mano che cresceva, il giovane Elfo, cui aveva dato il nome di 
            Zephyr, mostrò di amare le lunghe escursioni, in cui trascorrevano 
            molti giorni lontano da casa, iniziò a dedicarsi alla caccia 
            e venne istruito sui manuali che il padre conservava come ricordo 
            di luoghi che aveva visitato in gioventù. All’età 
            di vent’anni, Zephyr conobbe un Umano che era di passaggio lungo 
            la costa e cui gli offrì di restare per del tempo insieme a 
            loro; durante i mesi che il giovane Cavaliere, di nome Cloridano, 
            trascorse nella casa dei McTanar, Zephyr ebbe modo di apprendere l’arte 
            del combattimento che l’Umano si offrì di insegnargli 
            e, quand’egli decise di partire, si promisero di ritrovarsi 
            un giorno a venire.
            Ora era giunto per Zephyr il momento di lasciare la casa in cui era 
            sempre vissuto, ed il vecchio Immanuel avvertiva, insieme alla sua 
            tristezza nel veder partire colui ch’era divenuto suo figlio, 
            la paura e l’emozione che assalivano l’animo dell’Elfo, 
            ma sapeva che non avrebbe cercato di distoglierlo dal suo dovere.
            Zephyr si trovava già al fianco del suo cavallo, mentre terminava 
            di legare alla sella l’ultima sacca di provviste per il lungo 
            tragitto che lo attendeva, e, nell’udire i passi del padre che 
            si avvicinavano, si incamminò rapido nella sua direzione, un 
            sorriso tirato che gli si scorgeva in volto. Accortosi dell’enorme 
            prova che il padre stava affrontando in quell’istante, l’Elfo 
            gli gettò le braccia al collo, senza dire nulla, e così 
            rimase sino a che Immanuel non gli si discostò e gli disse 
            poche parole: «Ovunque tu ti troverai e qualunque cosa accada 
            d’ora in avanti, non dimenticare che qui troverai sempre una 
            casa ed un padre ad accoglierti. Fa’ buon viaggio e non mancare 
            di portare il mio saluto al buon, vecchio Atroth da parte mia.»
            «Questo è un arrivederci, padre, non un addio. Prima 
            che una nuova Primavera s’affacci sulle Terre dell’Ovest, 
            io tornerò a casa, per rivederti».
            Detto questo, salì con un agile salto sulla sella e spronò 
            il cavallo, che partì come un lampo verso la valle non ancora 
            illuminata dal sole del mattino.
          Erano trascorsi dieci giorni da 
            quando Zephyr McTanar era partito dalla casa sulle sponde orientali 
            dell’Oceano, ed ora l’Inverno aveva lasciato il posto 
            alla Primavera, senza aver, comunque, allentato la sua morsa di freddo 
            dalla valle del Fiume Azzurro, ancora immersa in una tremula nebbia 
            nonostante un pallido sole fosse sorto oramai da qualche ora. L’Elfo 
            osservava pensieroso, in sella al suo cavallo, i carri che attraversavano 
            a radi gruppi il ponte sul fiume, seguendo l’antica via che 
            univa Tauand alla Fortezza di Heor, passando per la Città di 
            Quinalth.
            Uscendo dallo stretto tratturo immerso nella fitta vegetazione delle 
            colline, l’Elfo fu investito da una folata di vento freddo e 
            fu costretto a ripararsi il volto con lo scuro manto che gli cingeva 
            le spalle. Spronando il suo destriero, scese a passo sostenuto dal 
            fianco della collina in direzione del ponte sul fiume, dove era scritto 
            che Ser Atroth avrebbe atteso il suo arrivo, la mattina del decimo 
            giorno dopo che la lettera fosse giunta. Dopo un breve tragitto, Zephyr 
            giunse vicino ad un gruppetto d’alberi poco distante dalla strada 
            ed ivi si fermò, senza sapere in realtà come la sua 
            guida l’avrebbe trovato. Non ebbe da attendere molto a lungo.
            Ad un tratto, da un punto in ombra a Nord della via, apparve la figura 
            d’un Elfo che gli si avvicinò silenzioso e si fermò 
            a pochi passi da lui, in sella ad un alto cavallo bruno. Pareva fissare 
            intensamente il medaglione che riluceva sul petto del giovane, lo 
            sguardo profondo ed enigmatico a stento visibile sotto la lunga chioma 
            argentea.
            «Così sei tu Antioco, il piccolo Elfo che tanti anni 
            addietro affidai al Viandante Immanuel McTanar? Devo ammettere che 
            non ti avrei riconosciuto senza quel medaglione; sei cresciuto in 
            maniera sorprendente per un ragazzo della stirpe elfica…».
            «Il mio nome è Zephyr, nobile Elfo, e sono figlio di 
            Immanuel McTanar; ma le tue parole invero mi giungono nuove. Fosti 
            tu ad affidarmi a mio padre? Chi sono i miei reali genitori, dunque?». 
            L’apprensione che si leggeva sul volto del giovane Elfo era 
            quasi pari alla diffidenza che nutriva ancora verso quello sconosciuto, 
            che era giunto dal nulla a raccontargli una strana storia sul suo 
            passato.
            «Ogni cosa necessita del suo tempo, e tutto ti sarà svelato 
            nel momento più opportuno. Per ora devi sapere che il tuo nome 
            è Antioco; ma per conoscere la verità che ti è 
            rimasta sempre celata, devi fidarti di me e seguirmi. Puoi chiamarmi 
            Atroth.»
            «Va bene, Atroth; farò come dici. Dove ci dirigiamo, 
            ora?»
            L’Elfo di nome Atroth parve sorridere alla trepidazione che 
            in un soffio era seguita alle fredde parole del giovane che si trovava 
            di fronte a lui, e, voltando il cavallo verso Nord, lo spinse al galoppo 
            seguendo le rive del Fiume. In un attimo Zephyr gli fu al fianco, 
            ed entrambi si allontanarono verso le colline a Nord della Città 
            di Quinalth.
          Quando s’arrestarono ai 
            piedi d’una altura, la luce del sole giungeva loro offuscata 
            da una fitta coltre di nuvole grigie che si rincorrevano in cielo 
            e minacciavano pioggia, mentre il vento s’era fatto più 
            tagliente ed ora sferzava le cime degli alti alberi in cima alla collina 
            con un sibilo spettrale.
            I due Elfi, dopo aver legato i cavalli ad un basso arbusto nelle vicinanze 
            di un cumulo indistinto di pietre, che parevano le rovine d’una 
            antica costruzione, avanzarono a fatica, riparandosi il volto dalle 
            folate improvvise, sino a giungere alla sommità del colle, 
            dove un basso tumulo di terra, fiancheggiato da propaggini rocciose 
            su tre lati, offriva un riparo all’impeto del vento. Dei bassi 
            cipressi s’elevavano ai lati delle rocce, e parevano abilmente 
            disposti a circondare il tumulo per proteggerlo da un nemico invisibile.
            Zephyr poteva avvertire il battito del suo cuore seguire tumultuoso 
            il corso dei suoi pensieri, mentre si avvicinava a quelle rocce dove 
            sapeva chi avrebbe trovato. Il suo sguardo, cercando di distinguere 
            qualcosa oltre la cortina che il vento parava loro innanzi, cadde 
            su di una lastra abilmente levigata che risaltava fra le pietre velate 
            d’una coltre di muschio alla base del tumulo, una lapide di 
            marmo chiaro dove alcune parole erano abilmente incise, ma iniziavano 
            a confondersi sotto i colpi delle intemperie. Il giovane Elfo si inginocchiò 
            di fronte alla pietra, sfiorandola con una mano, e lesse i due nomi, 
            uno al fianco dell’altro: “Ivi riposano, uniti per l’Eternità 
            in nome di Themis, Sir Hadrian Themisforo Van Alioth, Guardia Reale 
            di Quinalth, e la sua sposa Niven Lyra Roslin”.
            Zephyr avvertiva il tepore d’una lacrima che gli solcava le 
            guance, mentre leggeva i nomi dei suoi genitori. Quindi, si voltò 
            verso la sua guida, che s’era arrestata in silenzio a pochi 
            passi da lui, e gli chiese, con un filo di voce: «Tu conoscevi 
            mio padre e mia madre?».
            Ser Atroth poteva avvertire l’immensa tristezza che aveva afferrato 
            l’animo del giovane Elfo, e gli rispose: «Solo il nome 
            di tuo padre m’era noto; era uno dei valorosi Cavalieri del 
            Principe Celthigar, l’allora Erede al trono di Quinalth e l’attuale 
            Sovrano. Le vicende che accaddero trentun’anni fa ed il perché 
            tuo padre venne ucciso mi furono note solamente in seguito; dopo ch’io 
            ti trovai nella stalla della casa che ivi sorgeva e che fu la magione 
            di Sir Hadrian e di sua moglie sino alla tua nascita, non tardai a 
            comprendere che non saresti sopravvissuto restando a Quinalth, e ti 
            portai con me sino a casa di Immanuel, un Viandante che sapevo essere 
            un Umano giusto che t’avrebbe protetto sino a quando non saresti 
            stato pronto a conoscere la verità».
            «Ma tu sai chi ha ucciso i miei genitori e per qual ragione 
            ha fatto tutto ciò?».
            Lo sguardo di Atroth iniziò a fissare un punto imprecisato 
            oltre le spalle del giovane Elfo, mentre la sua mente cercava di ricordare.
            «La notte in cui ti trovai ero di passaggio per queste Terre, 
            mentre un forte temporale si abbatteva su Quinalth e sulle colline 
            circostanti. Una luce poco lontano dal punto dove m’ero fermato 
            per riposare attirò la mia attenzione, poiché pareva 
            che un immenso fuoco fosse stato acceso vicino ad un gruppo d’alberi; 
            mi incamminai allora verso il punto che si rivelò essere una 
            costruzione che andava a fuoco. Proprio in quel mentre vidi la figura 
            d’un Cavaliere ammantato di vermiglio che scendeva lungo il 
            fianco della collina, correndo proprio nella mia direzione. Giunto 
            poco distante da me s’accorse della mia presenza e sfoderò 
            la spada, con chiari intenti ostili, ma non riuscì a fare più 
            di pochi passi, poiché una mia freccia gli attraversò 
            la gola.
            Allora, mi avvicinai a lui, per cercar di capire cosa lo avesse spinto 
            a correre inevitabilmente incontro alla morte, ma egli era già 
            morto e nulla trovai addosso a lui che potesse svelare la sua identità 
            a parte un medaglione d’argento con una H vermiglia incisa in 
            bassorilievo».
            Zephyr prese fra le mani il disco che portava al collo, e se lo strappò 
            per osservarlo da vicino.
            «Quindi questo emblema non appartiene alla mia famiglia?».
            «No; quello è il simbolo di chi intendeva uccidere tuo 
            padre. Una morte che gli sarebbe servita ad indebolire le difese di 
            Sire Celthigar e destabilizzare l’equilibrio che si stava creando 
            fra i Regni di Telthartown e di Quinalth, che allora erano vicini 
            a stringere un accordo di pace. L’Umano che io uccisi era al 
            servizio d’un Mago fra i più potenti che le Terre dell’Ovest 
            abbiano mai visto e che, con suo figlio, aveva intenzione di prendere 
            il potere sui due Principati…. Il suo nome era Hotalth».
            Il nome non giunse nuovo a Zephyr, che l’aveva sentito pronunciare 
            la prima volta dal suo grande amico Cloridano, alcuni anni prima. 
            Rammentava che l’Umano gli aveva parlato di due Maghi oscuri 
            che, dopo un tentativo di uccidere la figlia del Reggente di Quinalth, 
            s’erano rifugiati sui Monti delle Nebbie per sfuggire all’Esercito 
            del Principe di Telthartown. Da allora non aveva più sentito 
            pronunciare quel nome e mai si sarebbe aspettato che le loro storie 
            fossero a tal punto indissolubilmente legate. Le parole di Atroth 
            ruppero il corso dei suoi pensieri.
            «Fu il successore di tuo padre ad uccidere Hotalth, durante 
            uno scontro sui Monti dove si era rifugiato. La Guardia di Quinalth 
            ebbe allora come ricompensa i territori a Nord di Telthartown ed a 
            Sud dei Monti delle Nebbie. In quel luogo fondò una Città 
            che presto divenne fiorente, il cui nome era Lot.»
            «E del figlio del Mago cosa avvenne?».
            «Ero sul punto di parlartene. Anche il figlio di Hotalth era 
            uno dei più grandi Maghi oscuri dell’epoca, ed il suo 
            intento era, dopo la morte del padre, di conquistare la Città 
            fondata dai suoi più acerrimi nemici. Honorius, questo è 
            il suo nome, riuscì, dopo un lungo e sanguinoso scontro ad 
            invadere la Città di Lot, ma i suoi abitanti riuscirono a rifugiarsi 
            in una Cittadella fortificata, dove ancora oggi sono in guerra contro 
            l’Esercito del Mago».
            Zephyr tornò a fissare il medaglione con il simbolo di colui 
            che aveva distrutto la sua famiglia, ed ora non più una lacrima 
            scorreva sul suo volto, che pareva ardere d’un fuoco che gli 
            avvampava nell’animo. Una voce gli impediva di ignorare che 
            il suo dovere era quello di unirsi a coloro che ancora combattevano, 
            come un tempo suo padre, contro un potere oscuro, ma non invincibile.
            Lentamente si rialzò, infilando in una tasca della tunica il 
            medaglione ed avvolgendosi nuovamente nel suo scuro manto. Ser Atroth 
            pareva aver compreso quel che attendeva il giovane Elfo.
            «Ti recherai alla Cittadella di Lot, dunque? Ti unirai a coloro 
            che combattono contro Honorius?».
            Lo sguardo determinato di Zephyr non era più quello del ragazzo 
            di pochi istanti prima; la sua volontà era quella che tanti 
            anni addietro apparteneva a suo padre ed ora sapeva quel che l’attendeva.
            «Verrai con me a Lot, Sir Atroth?».
            Ora un sorriso s’aprì sul volto dell’Elfo, che 
            attendeva e sperava allo stesso tempo che quella domanda gli venisse 
            rivolta.
            «Sarò al tuo fianco, qualunque via deciderai di intraprendere, 
            ma non adesso. Un compito mi attende da portare a compimento, prima 
            ch’io possa raggiungerti. Attendi il mio arrivo dopo che una 
            nuova luna a partire da oggi si affacci sulle Terre dell’Ovest. 
            Per quella notte, io sarò a Lot».
            Con queste parole, i due si strinsero la mano e presero due differenti 
            direzioni. Zephyr lanciò il suo cavallo al galoppo in direzione 
            Nord, seguendo una via che sapeva essere già stata tracciata 
            tanti anni addietro. In quel momento, i primi raggi del sole si affacciarono 
            timidi oltre l’oscura coltre di nubi, illuminando la collina 
            dove s’ergeva il tumulo e le rocce che lo custodivano, ed egli 
            sapeva che suo padre e sua madre erano al suo fianco.
          Zephyr
            Adepto dell’Arcana Saggezza