I miei genitori si chiamavano Laika e Pitaffio. Laika era una bellissima Kendottina, dai lunghi e morbidi riccioli biondi, gli occhi immensi ed azzurri, come una cascata di acqua limpida. Era dolce come una mela, di quelle gialle però... Papà Pitaffio non mancava mai di apprezzare la sua bellezza. Era un giovane Kendot aitante. Faceva il mercante e viaggiava molto; nel suo girovagare aveva conosciuto Uomini, Nani, Hobbit, Elfi e... perfino Elfe!! Gente d'ogni razza o stirpe, insomma. Poi, arrivando a Kendot More, aveva conosciuto mamma, si era innamorato e l'aveva sposata. Vissi felice con loro i primi
otto anni della mia esistenza nell'allegro villaggio; circondato dalla
mia gente, mi trovavo perfettamente a mio agio. Niente mi distraeva
dal mangiare biscotti e torte buonissime, dal giocare con gli altri
Kendottini e fare scherzi alla Signorina Bora, la maestra della scuola
del paese, vecchia nessuno sapeva quanto, e zitella in eterno perché
nessuno mai avrebbe osato sposarla. Era il nostro bersaglio preferito,
per qualsiasi tipo di corbelleria. Ma la mia attività preferita
era suonare il mio flauto, regalatomi da papà che lo aveva
ricevuto da un Elfo del Bosco Atro. Passavo ore ed ore, seduto su
un albero o in riva al Ruscello, a suonare il mio strumento. Un giorno però mio padre
dovette partire per un lungo viaggio. Mia madre non volle abbandonarlo,
innamorata com'era, e decise di seguirlo in terre lontane e pericolose,
dovunque fosse andato. Mi abituai presto agli sbalzi
d'umore dello zio Snotter, e imparai a trattare col suo difficile
carattere. A parte questo, era uno dei migliori fabbri che siano mai
nati fra i Kendot, e rivaleggiava quasi con quelli Elfici. Mi insegnò
tutto della sua arte, così imparai a fabbricare armi e a maneggiarle
egregiamente. Mi esercitavo ogni giorno, e lentamente diventai agile,
preciso e veloce. Molti dei ragazzi del villaggio non volevano più
giocare alla lotta contro di me, perché non riuscivano mai
a vincere. Fu così che scoprii la mia prima grande dote: il
combattimento. Il mio destino però non
era propenso a lasciarmi lì buono buono:quando avevo più
o meno quattordici anni, un giorno arrivò uno straniero tutto
ben vestito che portava un mantello rosso decorato con grandi insegne
dorate, e si fermò da noi per qualche giorno. Scoprii che era
il terzo fratello di mio zio Snotter e di mio padre Pitaffio. Così mi avventurai in un
lungo viaggio attraverso lande interminabili, stupefacenti, meravigliose.
Vidi genti sempre nuove, sempre diverse, finché, in compagnia
dello zio Frouk, giunsi finalmente a Kendottlan. Fui accettato a corte con benevolenza,
e perfino la gente del popolo era davvero ospitale, cosa non troppo
usuale per i Kendot. Zio Frouk mi procurò un precettore, da
cui imparai a leggere, scrivere e far di conto. Poi mi fece studiare
le mappe, la storia dei Kendot e delle altre razze, Ma la prospera vita di Kendottlan fu sconvolta da una terribile tragedia: quando ormai avevo diciannove anni, si ebbe notizia di un grande esercito di Goblin che marciava sulla città. Avrebbero raso al suolo ogni cosa, cercavano bottini, ricchezze, schiavi; si presentava davanti a tutti noi la prospettiva di una morte atroce. Molti furono i preparativi: si arruolarono nuove reclute, fu inviata una richiesta aiuto agli Elfi, ma la popolazione rimaneva allarmata. Un triste giorno di settembre, dalle alte torri della Rocca, le Guardie avvistarono l'armata nemica. Quel giorno fu terribile: le Kendottine piangevano per le strade, i loro figli erano impauriti, anzi, terrorizzati. Anche il Principe e gli Alti Gradi militari non avevano una bella cera! Il numero degli arruolati era stato aumentato in vista della guerra, ma l'esercito dei Goblin era davvero imponente. Si accamparono a Est della città. La notte le fiaccole delle sentinelle brillavano sulle mura, mentre per le vie c'era un terrificante silenzio; il tutto dava a Kendottlan uno strano aspetto spettrale. La gente si radunò nella
zona alta, l'esercito rimase giù. L'attesa fu straziante, ma
non lunga: quattro giorni dopo, all'alba, i Goblin attaccarono contemporaneamente
i due ingressi della città. Ci trovammo così intrappolati nella Città Alta; il giorno seguente i Goblin attaccarono le mura con le armi da assedio, e ci rendemmo conto che non era possibile aspettare. Durante la notte ci preparammo al contrattacco: sfruttando cunicoli sotterranei sconosciuti agli avversari che conducevano alla città Bassa attraverso vie segrete, riuscimmo a coglierli di sorpresa uscendo poco prima che levasse il sole. Essi ci videro spuntare da ogni parte e, senza rendersi conto di quel che succedeva, furono decimati e respinti fuori da Kendottlan. La stessa mattina giunse l'Esercito degli Elfi, che blocco la ritirata nemica e fece prigionieri i fuggiaschi. Nel tardo pomeriggio, l'ora più
bella a Kendottlan, fui fatto chiamare dal capo degli Elfi, che mi
disse di aver incontrato nel viaggio alcuni Kendot che avevano chiesto
di riferirmi un messaggio: erano i miei più cari amici d'infanzia,
che si stavano recando in una terra magnifica, molto lontana. Fui molto fortunato, poiché al mio arrivo nel Granducato trovai subito chi era pronto ad accogliermi. Fra queste persone, una kendottina in particolare mi parlò di una piuma, una piuma speciale, che può rendere grande la nostra esistenza. Da quel giorno la mia storia è cambiata, e sono infinitamente grato a quella kendottina, che ancora oggi è una delle sue migliori amiche, e che porta lo splendido nome di Anythanga. Da allora entrai a far parte del nascente Clan Kenfalous et Misterium, che attraverso varie e travagliate peregrinazioni, è giunto fino ad oggi. Non potrei fare assolutamente a meno di questi miei amici, e se avete tempo un giorno vi invito a venire a festeggiare con noi: non credo ci sia in Lot una comunità più allegra, spensierata e più ricca di grandi personalità. Di meglio non avrebbe potuto capitarmi. All’inizio, dunque, ero un kendottino sperduto, un novellino, guardavo con gli occhi grandi dello spettatore estasiato lo spettacolo e la bellezza del Granducato di Lot. Piano piano incomincia a cercare la mia strada, a farmi nuovi amici. Ricordo che Giugno fu un mese importante: per una serie di concomitanze, diventai Seconda Sentinella del Clan. Era un ruolo marginale, ma per la prima volta contavo qualcosa; era un primo piccolo grande passo verso l’affermazione della mia personalità. Stavo inoltre cercando una occupazione che rispondesse alle mie esigenze e caratteristiche. Sicuramente cercavo qualcosa che mi incuriosisse, qualcosa che mi potesse svelare le vie di un sapere particolare, non ancora approfondito. Feci così domanda agli Alchimisti, fui ammesso al colloquio, ma non feci in tempo ad andarvi perché un favoloso viaggio verso la scoperta delle mie origini mi coinvolse. Così passò la lunga e torrida estate, e tornai solo in autunno a bazzicare per le vie di Lot. Ripresi il mio compito, e fui promosso a Prima Sentinella. Incominciai un lavoro arduo, aiutato dal mio grande collaboratore Lanse, e poi da Anciulina. Sotto la mia direzione, le Sentinelle hanno fatto un grande lavoro, e la nostra famiglia è diventata ancora più numerosa. In seguito ad altri vari cambiamenti però, recentemente sono stato chiamato ad assolvere un altro, arduo ma piacevole, compito: mio cugino Pulcifero è stato eletto KranKendot, e io ho preso il suo posto come Primo Extra. Ora mi occupo di formare i kendottini più giovani, insegnando la difficile arte dell’hoopak e tramandando le nostre più antiche tradizioni. Il nostro Clan cresce e splende, e io cerco di contribuire a farlo diventare ancora migliore. Ma negli ultimi tempi ho anche fatto richiesta di nuovo a una Gilda: resomi conto che la via alchemica non era la mia strada, e avendo compreso il mio immenso interesse per la storia passata, nonché il mio volere di fare bene per il Granducato, ho contattato i Detentori dell’Arcana Saggezza. Dopo un lungo colloquio con Lady Verde, che definirei però anche divertente (e credo che lei sia d’accordo con me) e qualche settimana passata a chiacchierare con i Detentori, sono finalmente stato ammesso, e mi accingo ora a intraprendere il mio cammino di Adepto, sperando che il mio destino mi riservi ancora tanta felicità e – perché no? – molte sorprese. Pluffo
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